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Tonia Bonacci, scrive un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.
Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo. Si può allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. Tonia Bonacci in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.
Queste le parole che fungono da preambolo, le parole con le quali lo stimatissimo e più esperto collega Marco Guratti, mio avversario in più di un’occasione, introduce questi concetti riportati nel gruppo facebook da lui creato:
Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.
Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.
Quell’ostacolo si chiama limite. Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.
Agonismo significa: tendenza a superare un limite.
Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti. Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna a gestire sé stessi dinanzi al limite, a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri. Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire.
Cosa serve per riuscirci?
- che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
- che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
- che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
- che sappia starmi accanto per trovare nuove strade
Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione. Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti?
Il rischio è di vedere ragazzini che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”) che si disperano che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà che abbandonano l’attività sportiva.
Invece, raramente ho sentito dire:
- É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
- Cosa puoi fare per migliorare?
- Come posso aiutarti?
Credo fortemente che lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
Credo sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
Il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita. Per fare ciò occorre avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.
Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto. con me stesso, con i compagni e avversari, con un adulto
- Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento.
- Confronto con i compagni e con gli avversari: perché sono loro che ci fanno “da specchio”.
- Confronto con un adulto di cui ci si fida: perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi, perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento, perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo, perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti
L’allenamento Integrato
Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integrati, dove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.
È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.
Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:
– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti
– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato
– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro
– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità
– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita
– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori
Per questo fare sport è un gioco serio!
Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!
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