Time-out

Time-out, cosa dire?

Trovare le parole giuste è parte del nostro lavoro. La sospensione è spesso ancora di salvezza, ossigeno per corpo e mente: è necessario che quel minuto sia sfruttato quindi al meglio fra messaggi verbali e non verbali.

Oggi rubo nelle tasche di Angela Momoli che con la pallacanestro non c’entra nulla ma che col mental coaching, invece, si sposa bene. Ex giocatrice pro di volley, ora impegnata appunto come docente in corsi vari relativi al coaching.

Una riflessione però rispetto all’articolo che riporto qui sotto: vengono indicati 5 errori da non commettere e fra questi c’è proprio quello di dire ai giocatori cosa non vogliamo che facciano. Una contraddizione (necessaria?)

LA GESTIONE DEL TIME OUT: 5 ERRORI DA EVITARE

 

I limiti

 

 

 

Tonia Bonacci, scrive un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

 

 

 

 

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo. Si può allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. Tonia Bonacci in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

 

Queste le parole che fungono da preambolo, le parole con le quali lo stimatissimo e più esperto collega Marco Guratti, mio avversario in più di un’occasione, introduce questi concetti riportati nel gruppo facebook da lui creato:

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.
Quell’ostacolo si chiama limite. Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi. Continua a leggere

Si muore da soli

Una frase triste che però spero faccia riflettere. Più che mai questo mestiere condanna ad una orrenda verità troppo taciuta, condanna ad essere soli:
se si vince i giocatori sono stati bravi, se invece si perde è il coach ad aver sbagliato oppure il coach che avrebbe dovuto fare di meglio.

Già, ad ogni categoria, con la scusa degli obiettivi stagionali, valutati guardando dei numeri senza però conoscere o voler riconoscere i motivi che li hanno portati.
Le società si prefiggono obiettivi ma non si chiedono mai come questi si sono raggiunti o come e perché non si sono raggiunti.

Oltreoceano dicono hired to be fired: assunti per essere licenziati, e forse almeno su questo hanno ragione più di noi; si assume un coach e lo si usa a mo’ di tirassegno. Continua a leggere

Motivazioni, involuzioni e qualche dubbio. Un coach “solo”.

il-Dubbio-tra-Core-ed-Elementum

Senza azzardi posso dire che stiamo andando bene, che la squadra mi segue, che a parte momenti di confusione momentanea i risultati sono arrivati. Ad oggi siamo a 6 vinte e due perse di cui una ai tempi supplementari, cosa non trascurabile visto che questo campionato prevede 1 punto per chi perde ai tempi supplementari.

Il passaggio turno (8 squadre nel girone e 3 che passeranno alla fase successiva) non è affatto scontato visto anche che la fortuna ci ha regalato un girone molto combattivo con 4 squadre candidate al passaggio turno ed una quinta che disturba (una delle nostre amarissime sconfitte….).

Nelle partite più semplici, anche se il mio credo è non prendere sottogamba nulla, e giocare sempre al meglio delle proprie possibilità, ho cercato chiaramente di dare spazio a chi in genere gode di minor minutaggio ed a chi pensa che sia io in errore rispetto alle scelte. Continua a leggere

Frustrazioni e progressi “invisibili”

La squadra è frustrata, alcuni giocatori dubbiosi, altri un po’ depressi.

Già, l’avventura, essendo tale, non ha per niente i tratti della facilità.

Lavorando sui fondamentali sono arrivato al punto di far crollare alcune certezze che molti dei giocatori avevano: convinzione di sapere palleggiare o di saper tirare: convinzione tutta loro visto che i risultati visibili ad occhio nudo e nei risultati delle scorse stagioni parlano di tutt’altro.

Alcuni esempi: un giocatore ha un tiro che lascia partire praticamente dl petto: un tiro che quando è “scoccato” con avversari veri e non con compagni di squadra, o con i ragazzi della serie D della nostra società, viene frequentemente stoppato.
Difficile, avendo 20 anni, togliere questa tara, rassicurarlo, convincerlo ad investire in un movimento, quello corretto, che gli sembrerà sempre macchinoso da digerire e poco produttivo visto gli zero canestri realizzati con il nuovo movimento da eseguire. Preciso che il suo tiro non è realmente redditizio come lui crede (diciamo circa un 30% dalla distanza 2 punti) e che quindi sostengo sia conveniente destrutturarlo per ricostruirlo.

Sono arrivati due nuovi playmaker e chi rivestiva (a mio modesto parere non proprio correttamente) quel ruolo si sente “derubato” ed insicuro avendo anche visto che negli 1 contro 1 perde spesso il possesso palla: segno che il proprio palleggio non era poi così buono e sicuro.

Ho impostato uno schema che prevede, da una partenza di “5 fuori” con due pseudo giocatori lunghi sotto canestro, dei blocchi orizzontali e la ricerca di una ricezione palla in post basso: taglio del playmaker subito dopo aver spostato la palla in ala, gioco a due con pivot ed esterno se la palla non scende in post basso: sarà proprio il post basso a salire e bloccare per gioco un pick&roll con l’ala. Continua a leggere

Le differenti aree del sapere

L’insegnamento del basket, come ogni altra disciplina, non può prescindere dai concetti base del “sapere”, prima, e del “saper trasferire” poi.
Sommariamente potremmo suddividere la conoscenza e la capacità di trasferirla nell’allievo in 5 aree del sapere:

Saper essere: l’insieme delle norme comportamentali con cui l’allenatore deve dare l’esempio, la deontologia, valori umani e professionali come ad esempio la puntualità, la rettitudine morale ecc.

Sapere: l’insieme delle regole di gioco, la tecnica. Chi insegna qualcosa deve essere preparato (vale per tutte le discipline).

Saper fare: Il solo sapere non è sufficiente, bisogna anche saper fare che si traduce nella capacità di effettuare una corretta progettazione didattica ma, anche, di saper effettuare un esercizio (dimostrazione).Più in generale, l’allenatore deve sapere quali obiettivi si propone, in quanto tempo e con quali mezzi.
Questi tre elementi costituiscono la base per una buona didattica.

Saper far fare in campo:  Ai concetti visti si affianca quello di saper far fare in campo, l’allenatore deve programmare il proprio lavoro e poi deve essere in grado di metterlo in pratica attraverso adeguate modalità didattiche.

In ultimo deve verificare gli esercizi effettuati dai propri allievi, verificarne i movimenti che si prefigge di insegnare e far eseguire.

Saper comunicare: l’ ultimo concetto è saper comunicare, ricordarsi che l’allenatore allena uomini, persone con le quali si deve relazionare e con i quali deve parlare adeguatamente.

Deve essere in grado di instaurare un rapporto proficuo per far rendere il massimo dai propri giocatori, saper parlare, ma saper anche ascoltare e non solo relativamente a questione tecniche.

 L’organizzazione in campo: tutti gli allenamenti devono essere preparati con cura a partire dai concetti esposti precedentemente.  La preparazione deve prevedere anche la suddivisione del lavoro sul campo. I giochi e gli esercizi possono essere previsti per file (giocatori uno dietro l’altro) per righe (uno di fianco all’altro); in coppia, in singolo, a gruppi; su tutto il campo, a metà campo (di attacco o di difesa, o trasversale), su un quarto, su una porzione.
L’allenatore sceglierà di volta in volta quale disposizione attuare affinché l’esercizio possa essere effettuato negli spazi più consoni.

Un giocatore si deve saper muovere e deve saper giocare nello spazio e nel tempo; deve sapersi muovere mentre accade qualcos’altro di fondamentale nell’azione di gioco: un esempio è il corretto timing di attuazione di uno schema, l’uscire da un blocco e ricevere la palla con i piedi girati durante la ricezione della palla: piedi pronti e diretti a canestro.

Il giocatore deve sapersi muovere sul campo mantenendo la corretta spaziatura con i propri compagni di squadra, essere autonomo nel gioco ed avere iniziativa seppure è importante essere collaborativo con i compagni ed equilibrato sotto il profilo mentale, tattico e fisico: concetto di pallacanestro integrata.

Il passaggio dal minibasket al basket

Il momento di passaggio fra minibasket e basket rappresenta probabilmente uno dei momenti chiave nell’evoluzione di un atleta ed è infatti nel corso di questa transizione che viene rilevato il maggior numero di abbandoni spontanei.

E’ ragionevole credere che nella grossa percentuale di  abbandoni sia compreso un considerevole numero di potenziali atleti di rilievo che non verranno purtroppo mai scoperti e che questa problematica rappresenti probabilmente la prima causa della bassa percentuale di talenti espressi.

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La metodologia di insegnamento delle tecniche sportive

La metodologia è una disciplina che studia ed analizza le dinamiche e le strategie di insegnamento e di apprendimento.
Nel contesto generale delle discipline sportive l’allenatore può essere considerato un insegnante in senso lato, ed è da considerarsi tale al di là della disciplina sportiva di propria competenza.

E’ chiaro però che il suo compito specifico sia comunque correlato all’insegnamento delle tecniche dei movimenti tipici della disciplina sportiva da insegnare.

Un allenatore in grado di applicare le corrette metodologie di insegnamento sarà in grado di  distinguere le varie condizioni personali dei propri atleti così da poter progettare un lavoro di insieme mirato contemporaneamente al miglioramento del gruppo e del singolo atleta nel caso in cui questo abbia capacità inferiori alla media del gruppo.

E’ ragionevole credere infatti che solo attraverso un corretto bilanciamento dei carichi di lavoro, e dell’accurata programmazione, l’allenatore possa riuscire a migliorare il livello generale degli atleti.

Ogni singolo, a maggior ragione se giovane oppure alle prime esperienze sportive, dovrà essere sufficientemente motivato e costantemente stimolato dall’allenatore. E’ molto importante creare un ambiente ed un clima sportivo favorevole alla gestione del gruppo. Va ad esempio tenuto conto, proprio in quest’ottica, che gli atleti giovani si avvicinano ad uno sport prima di tutto a scopo ludico ed al contempo con l’obiettivo di stare insieme agli amici. E’ molto frequente infatti che un atleta giovane abbandoni una disciplina sportiva a causa dell’ambiente che lo circonda piuttosto che per motivi tecnici.

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