E di Empoli

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E di Empoli

Che cos’altro avrei potuto aspettarmi da una cittadella conosciuta solo per lo spelling?

Infatti c’è quell’alone di depressione ed ordine della provincia italiana, quel bello misto a vuoto che non sai più se desiderare il disordine di Roma e quella vita che già sai rifuggiresti.

Sono quasi le 21 e la giornata ha l’aria d’essere finita da un bel po se non per i 4 immigrati che scorrazzano vicino alla stazione alimentando pregiudizi. E’ tutto chiuso e silenzioso così che l’hotel sia il primo ed unico rifugio e sarà l’unico aspetto degno di nota della trasferta stessa.

E di Empoli, niente di più: una decantata osteria che di vecchio non ha nulla se non nuovi oggetti di gusto retrò, una cucina di altisonanti piatti in menu che però corrispondono ad anemiche pastasciutte e per lo più normalissimi piatti tipo cotoletta panata e, reggetevi forte, un antipasto di burro ed alici da prepararsi da soli su crostini di pane bruciacchiato su fornello a gas (fidatevi, è così, lo so perché mia nonna li preparava così e riconosco il gusto fra mille).

Un bimbetto irrequieto che la madre fatica a tenere a bada, un esercito di gente in cucina, una tavolata di colleghe di ufficio ed un omosessuale molesto che continua a riempire il locale dei suoi urletti forzati, una musica approssimativa e scorrelata, un tempo interminabile nel quale apprezzare la focaccia scura nel cestino del pane, quello si, arrivato per tempo.

Acqua e vino. Vuole due bicchieri? Che domanda sarebbe? Ho il visto di uno che mescola tutto? Ecco questo è il livello di quel ristorante. E di Empoli, che potevo aspettarmi?

L’hotel è su 3 piani di un palazzetto storico, nessun ascensore, pulito da sembrare asettico, aperto ieri, mentre sono più di 3 anni o almeno così mi dice la tipa che mi consegna la chiave. Tutto in legno, tutto dipinto di bianco che pare di quelle case di mare a metà fra appartamento e barca; tutto molto moderno, tutto molto pulito, tutto abbastanza funzionale. Continua a leggere….

Il Dascio

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Il Dascio, un po come il Lonfo, si alluperca. Bizzacca all’imbrunire soviatico.
Ecco io l’ho visto ed è come il Munchio che vedevo da ragazzino e che temevo fosse sotto al mio letto, che continuavo a vedere nel delirio della febbre alta adolescenziale.
Che poi, a dirla tutta sia il Dascio che il Munchio non hanno un profilo definito né un verso tutto loro: sono immagini sfocate prese da libri di patafisica, sono sensazioni e timori. Il Dascio è bestia ingorda dolce ed aggressiva. Sicuri?
Ho idea che ne scriverò ancora, magari in apposita nuova categoria, perché il Dascio è primordiale e brutale, istintivo. Almeno credo.

Il Dascio incarna un po’ quello che temi ma che tutto sommato cerchi. E’ come l’odore di benzina che da fstidio fa male ma che non puoi smettere di annusare.
Ora è animale, ora verso, ora mostruoso energumeno che i sonni tormenta, ora gabella, ora soprannome.

-Ce l’hai il dascio?
-No
-Allora ‘n poi passà!

Visto? e così via.

Eur (Palasport)

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eur palasport 2

Ci sono certe zone di Roma che odorano di niente.

Tipo fra viale Europa e viale America dove gli altisonanti nomi della toponomastica si abbinano a depressione urbanistica, a quartieri dormitorio dove la sera tutto è spento e vuoto. Queste zone sono fatte di ministeri, grossi edifici che riposano come anziani pachidermi silenziosi.

Qui ci si capita solo per lavoro, come me stamattina. Qui ci incontri di quella gente che alle 10 di mattina non so come né perché, porta a spasso il cane mentre parla al telefono. Indossano dei cappelli di lana, orribili; cappelli che sicuramente gli danno prurito sulla fronte e che io non saperei sopportare. Io gli cammino sempre dietro dietro perché cerco di capire ascoltando la loro conversazione ma poi capisco sempre che questi qui c’hanno i soldi e pensano che li si viva bene.
Io anche oggi ero in anticipo: mi piace girare per le strade, conoscere le zone, sentire certe dinamiche e problemi dei negozianti del posto, vedere quella tale zona o l’altra che edicole ha, se c’è un bravo calzolaio del quale a volte vado anche chiedendo senza motivo.

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Emmanuel

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I bambini nascono e sembrano dei vecchi, degli esperti, almeno.
Arrivano fra lamenti e lacrime, dolori, fronti corrugate, piccoli e grandi sbadigli che forse sono sonno, forse noia, forse consapevolezza per qualcosa di già previsto ed ora in scena.

Loro hanno fatto un lungo viaggio, lungo circa 9 mesi. Hanno già la loro esperienza, che ci crediamo oppure no: hanno già ascoltato musica, mangiato e dormito, vissuto il bello del venerdì, la sindrome della domenica sera.

Hanno viaggiato rannicchiati e dormito col rumore rassicurante del liquido amniotico, un rumore che forse sembrava lo sciabordio che Ulisse poteva sentire nella notti di mare calmo, navigando verso Itaca, nell’odissea della sua vita, diretto verso la casa, in senso lato la famiglia, “la madre”.

Così arrivano e sembrano consapevoli astronauti piombati qui da molto lontano, sub emersi di botto per prendere fiato, infastiditi dalla luce e dai rumori; e respirano veloci ma piano, leggeri, e ci lasciano col dubbio rispetto a cosa e come saranno in questo mondo, di come e se saremo adeguati vivendo con loro.

Ma cominciamo male parlandogli con le voci affettate e le parole che poi non esistono davvero. Forse ci può stare in cambio di tutti i baci e degli abbracci che in pochi giorni accumuleranno e che seppure a distanza anche io ho già inviato.

Benvenuto Emmanuel

Pozzolana: io boh…

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pozzolana grezza

E’ giorno, un nuovo lunedì (ieri); sentiamo storie di gente insoddisfatta, di gente che finge di evolversi, che si sposa e figlia per imitazione, per amore irrisolto; storie di persone che sembrano avere vite perfette.
“2014 ed io…boh”.
Da qualche giorno ci inseguiamo al telefono con ansie varie: ora uno consola e l’altro ascolta, dopo qualche ora l’esatto opposto. Ora uno ha la ragione dalla sua ed analizza lucidamente la situazione dell’altro, perché non è coinvolto in prima persona, poi la situazione si inverte e mal comune mezzo gaudio.
Poi uno risolve, l’altro si rallegra, poi tutti e due, poi ancora. Continua a leggere….

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