Se vai al mare chiamami

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gloucester beach - Hopper

 

Così arrivava l’estate e con lei la noia vera dei giorni lontani da scuola, lontani dalla bellissima e vitale routine.

Oggi capisco mio padre.

Mi svegliava presto per partire ed io dalla sera prima ero un misto fra eccitato e rassegnato. Fare qualcosa con mio padre mi risvegliava dal torpore di quei giorni di niente, dalla canicola dell’estate avanzata e Roma svuotata, dal cortile disabitato dalle grida degli altri bambini. Così con gli occhi a fessura salivo in macchina e parlavo poco fra sonno e certezza che mio padre avrebbe voluto parlare poco. Mare verso nord, Fregene, Ladispoli, per abitudine di mille anni prima, di mio padre da giovane.

Per me il mare faceva il paio con una ciambella fritta, bella grossa quando ancora il bar era vuoto, il mare tranquillo, la spiaggia deserta. Parcheggiavamo lontano perché mio padre s’era già sforzato a portarmi lì, a fare km, a non dormire e cercar posto vicino al mare, girare, rigirare, no, non era il caso. Mi ricordo gli aghi di pino che pungevano dentro le ciabattine già indossate con vergogna da casa, il tragitto sui marciapiedi dal posteggio in strada fino al bar per la ciambella; poi in spiaggia col fastidio della sabbia fra le dita.

Io mi ricordo solo una volta, in spiaggia tutti e 3, con mia madre col vestito a fiori,e le passeggiate per farmi contento, la pietra pomice e la loro spiegazione, le loro parole e le loro risa nel vedermi stupido sollevare una pietra così grande eppure così leggera.

Io mi ricordo quella sdraia fatta di sottili tubolari di plastica che segnavano la pelle; mio padre dormiva a bocca aperta.  “Chiamami se vai al mare“, mi diceva ogni volta. Ed io stavo seduto e pensavo, senza far niente.

Mi annoiavo, ma in posto diverso, ed aspettavo che passasse il tempo senza dire nulla, consapevole che almeno ero con mio padre anche se non stavo di fatto condividendo nulla se non il posto, se non sapevo nuotare, se poi mio padre appena svegliato mi accompagnava in acqua stando attento che i soldi e le sigarette nei suoi pantaloncini non si bagnassero.
Mi sgridava dolcemente perché rimanevo senza far niente: ma non sapevo nuotare, ero da solo, non volevo disturbarlo e così me ne stavo li ad aspettare, capire, chiedermi. Mi spronava col suo modo duro e sbagliato, ridendo poco dopo, appianando tutto come le onde lisciavano la battigia.

Sento la sua mano nodosa che stringe la mia, non ho paura delle onde né mi lagno del freddo sulla pancia, saltello, lui ride, mi chiede cosa c’è, mi dice come bagnarmi, usando le mani, come fare, mi insegna e mi sembrano grandi verità. Ancora oggi entrando in acqua mi bagno allo stesso modo, mi sento ridere, sento la sua voce che ridendo mi chiede “che c’è, eh?!?!?!“. Non sapevo dirgli che ridevo perché ero felice, che gli volevo bene.

Non ci muovevamo dal nostro posto, dal nostro ombrellone. Ci andavamo per dire che ci eravamo andati anche se poi non ci saremmo voluti andare.. io ci andavo per stare con lui, lui perché voleva mia madre, ma avrebbe preferito portarmi in giro per il quartiere, dal meccanico, alla piazza, non so, ma non li. Ci annullavamo per ore, ma insieme.

Poi al ritorno, in macchina, ancora silenzio; ma ero contento, avrei perfino raccontato di quelle giornate al mare.

Oggi racconto del sonno di mio padre, di quei silenzio, di quel mare vuoto e silenzioso, di quegli odori e di quelle soddisfazioni, di quelle interminabili ore con lui che dormiva, sempre stanco; racconto di  qualcuno che passava e sorrideva, del giornale sopra il suo petto.

Adesso capisco mio padre, quel sonno nichilista, quell’oblio di qualche ora, quell’annullamento consapevole, il voler far scorrere il tempo non per malessere o cattiveria ma per bisogno di isolarsi, di pensare, di annientare pensieri.

Io adesso capisco mio padre ma non posso più dirglielo.
Ci penso ora, sul divano, dormendo appena dopo cena, come faceva lui, mentre penso che voglio solo riposare, annientare qualche ora, allontanare qualche pensiero.  Ma non lo dico, non so dirlo, non si spiegarlo. Non lo dico perché poi sarei accusato di cattiveria, insensibilità, menefreghismo o chissà che altro. Io invece adesso capisco mio padre, quel suo voler dormire, quella scontentezza smorzata da quel sonno, da quel dolce sprecare le ore pur consapevole che poi al risveglio sarebbe tornato quello da cui si voleva sfuggire insoddisfatto, che fossero cose da fare o pensieri di lavoro, fatiche, che importa?

Mio padre era felice ed orgoglioso: soltanto voleva starsene lì a dormire, a riposare, col suo sonno accumulato che pareva venisse da 100 anni prima. Non voleva essere altrove o con altri, non aveva un problema né una situazione da cui fuggire: era l’esatto opposto.
Era solo stanco, aveva deciso che non avrebbe parlato perché nessuno avrebbe capito, colpa anche sua, delle sue povere parole. Mio padre dormiva, annullava le ore.

Io seduto nella sabbia mi chiedevo come potergli far capire che avevo capito, che con me poteva farlo, dormire, che sarei tornato a casa dicendo che ero stato bene, in ogni caso. Quel silenzio, quei pomeriggi sprecati, erano la mia maniera di accoglierlo e proteggerlo.
Solo sbagliai e non dirglielo mai.

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