Mandaly e dintorni

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Mandalay è già diversa da Yangoon non tanto per il clima quanto perché urbanizzata in maniera totalmente differente.
Qui ci sono i classici motorini asiatici ma il traffico non è ossessivo e tutto sommato visto la viabilità molto geometrica si potrebbe anche andare in bici: le distanze però non sono così banali ed il è caldo piuttosto pressante per cui è comunque meglio contrattare un taxi od un magico tuk tuk per l’equivalente di pochissimi euro.

Pahtodawgyi

Davanti alle nostre finestre c’è lo scheletro di un palazzo in costruzione ed un anziano che di primo mattino legge sempre il giornale seduto su una sedia, al secondo piano dello scheletro, come se nulla fosse, come se fosse in camera sua; peccato manchino porte, finestre, pavimenti e muri. Ma lui se ne frega e legge imperterrito. L’ho notato appena arrivato, l’ho visto oggi. E’ il guardiano, ma di cosa, del materiale che sta li da tempo abbandonato visto che il palazzo non è attivamente in costruzione? Ad una certa ora veste una camicia beige, prima è seminudo.

A pianta geometricamente regolare, proprio nel mezzo della città,  c’è il complesso del palazzo reale. Onestamente è maggiore la fama della figura vera e propria: militari i tutto punto vestiti sorvegliano l’ingresso e chiedono biglietti e passaporti: la frustrazione del riconoscere il sito di assoluto interessa ma in pessimo stato di conservazione è tanta.
Di dimensioni assolutamente considerevoli, il palazzo risulta invero piuttosto vuoto rispetto a quanto, appunto, il fossato circostante, l’ingresso e la fama possano lasciare intendere. Un complesso da vedere assolutamente ma senza false aspettative, ecco tutto.
Incomprensibili, invece, un aereo ed un treno abbandonato sulle rocce nel terreno circostante, “usanza” che ritroveremo poi in altre città dove vengono esposte piccole locomotive o relitti di aerei.
Molto più interessante e posto poco fuori per via della ricostruzione voluta proprio da re Thibaw a dispetto di quanto costruito dal suo predecessore, il monastero di Shwenandaw Kyuang, tutto di legno di teak intagliato, spostato nella attuale posizione dopo l’originale posizionamento. Anche questo però piuttosto mal messo ed oggetto di timide e non fedelissime ricostruzioni causa materiali e tecniche utilizzate.
E’ imperdibile invece il giro alla Mandalay Hill alla quale si può arrivare per godere di un punto panoramico di rilievo, specie al tramonto, oppure all’alba.
Alla collina si può arrivare con diverse scalinate di centinaia di gradini oppure in taxi o meglio ancora con un magico tuk tuk come mamma Piaggio vuole. Ovviamente l’ultima opzione è la più in linea con le mie preferenze ed il gusto di sentire arrancare il piccolo motore sui tornanti è impagabile. Anche in questo caso, tempio deludente ma sempre rispetto a quanto preannunciato perché in valore assoluto, invece, è assolutamente da vedere! Migliaia di specchi ornano le mura esterne ed altrettanti turisti di affrettano per le foto panoramiche che però, anche complice la stagione del monsone, risultano piatte visto che il cielo è piuttosto grigio dal mattino. Alla sera sulla collina si possono incontrare i giovani monaci novizi che arrivano dai vicini monasteri per esercitare l’inglese. 
Con uno sforzo di mirabolanti evoluzioni linguistiche dovute allo scarso inglese del personale misto al nostro pur sempre arrangiato e con l’aggiunta del vizio di parlare tenendo la mano davanti alla bocca del receptionist, riusciamo a contrattare un tour nelle 4 cittadelle poco fuori Mandalay. Il tassista, che parla inglese peggio che mai, sarà a nostra disposizione per tutto il giorno.
In risposta allo spirito di privazione dei monaci buddisti decidiamo di infliggerci una punizione: sveglia alle 4.30 per andare a vedere l’alba ad Amarapura, sul ponte di teak. Per pochi dollari un autista ci seguirà tutto il giorno permettendoci la visita di tutte le cittadelle qui attorno.
La scelta si rivelerà ottima visto che pochi altri pazzi, in vacanza, decidono di andare lì a quell’ora invece che al tramonto. Poche persone in giro, ponte sgombro e bancarelle in apertura così che non sia sia nemmeno da difendersi dai venditori che oggettivamente nei pressi dei monumenti maggiori cercano di attorniare i turisti pur senza insistere in maniera fastidiosa.
Un ponte di legno pedonale, il più lungo al mondo, 1200 m: U-Bein Bridge

Amarapura, U-Bein Bridge

I locali fanno ginnastica o quella che credono tale allungando i muscoli, sfruttando proprio i piloni del ponte o le piccole aree di sosta, coperte, ricavate sullo stesso; un vento fresco e costante ci sveglia mentre qualcuno con macchine fotografiche degne di un set cinematografico si avventura sulle improbe imbarcazioni accompagnato dai pescatori.

U-bein Bridge Mong at sunrise

The great Mong from near monatery – Amarapura, U-Bein Bridge

Credo sia meglio vivere il ponte camminandolo, incontrando persone piuttosto che puntare ossessivamente obiettivi fotografici sfruttando una luce che, ancora una volta, non c’è causa nuvole.
Monaci in costante cammino, con o senza ciotola per l’elemosina, si stagliano con le loro tonache rosso intenso fra il grigiastro del legno antico ed il verde degli alberi che spuntano dall’acqua: in questo periodo molto del paesaggio cambia proprio per effetto del monsone e parecchie zone sono del tutto o parzialmente allagate.
Un silenzio irreale, un paesaggio vasto di acqua resa torva dalle piogge che smuovono fanghiglie e detriti: una sensazione di pace e di tempo, di poche parole e sorrisi dei passanti.
“Oggi è un giorno fortunato”, mi avvisa quasi ammonendomi un minuscolo birmano anziano ma atletico. Lo penso anch’io ma per motivi diversi.
Le piccole bancarelle hanno intanto preso vita: improvvisate cucine scaldano olio piuttosto attempato, colorati cappelli spuntano fuori appesi ai pannelli di legno mentre operose donne cominciano nonostante tutto, sorridenti, a proporre mercanzie che interesseranno a pochi o nessuno.
Questo aspetto, questo retrogusto di povertà e bisogno di emergere di certe zone dell’Asia mi spinge sempre ad indagare la storia, a domandarmi della loro e della mia religione, a chiedermi cosa ci sarà li in quell’esatto posto fra 20 anni, che ne sarà di quella gente, di quel viso che ho ora davanti, che futuro avranno quei bambini della bancarella, se percepiranno le occasioni perse, se sapranno della vita al di fiori di quel micro mondo, se ne soffriranno o se saranno felici come oggi ci appaiono a prima sorpresa vista. Sono felici perché “non sanno” o lo sono perché nella realtà hanno quel che basta ?
Mentre penso che non riesco a vederci come due facce della stessa medaglia, mentre penso che siamo in realtà, come non dovremmo, mondi differenti, il nostro tassista è già pronto a partire.
Il monastero di Mahagandayon, sempre ad Amarapura risulta forse come uno dei posti eccessivamente rovinati dal turismo: il monastero, fra i più grandi ed abitato da centinaia di monaci di ogni età è risultato essere una cittadella monastica animata soprattutto verso la tarda mattina quando i monaci sfilano ordinati e silenziosi per ricevere le offerte di tutti i fedeli asserragliati ai lati del viale principale della cittadella per scattare foto (macchina fotografica non permessa, cellulare si). Sicuramente più interessante nelle ore precedenti quando i monaci girano nelle loro attività quotidiane fra organizzazione, rasatura, lavaggio vesti e scherzi camerateschi visto che di fatto, seppur senza armi, il monastero risulta una caserma per regole e cariche, organizzazione. Sicuramente da vedere ma con compostezza, non necessariamente durante la sfilata sebbene sia coreografica. Per la vita monastica via via accumulo aneddoti, riferimenti, chiacchiere fatte con tassisti e birmani vari: mi riservo un pezzo più avanti per tutto questo.
    Mahagandayon
Sagaing, cittadella appena 20 km distante da Mandalay, sul fiume Irrawaddy. Cosa vedere e fare? Naturalmente Pagode!
Qui l’attività principale è togli le scarpe (ed i calzini), rimetti le scarpe: luoghi sacri nei quali camminare scalzi per rispetto anche se a volte lo stato del terreno suggerirebbe ben altro. Da non sottovalutare anche i lastricati neri che col caldo della zona arrivano a temperature tali da costringerti a correre invece che visitare serenamente il sito. Piastrelloni sempre di rilievo per smalti, toni di colori, forme geometriche che completano la visita del giallo oro degli stupa, che contornano il suono dolce delle centinaia di campanelli oggetto del debole vento.
Direi che i siti imperdibili sono la Pagoda di Soon U Ponya Shin Paya sulla collina, e Umin Thounzeh, “famosa” per i Buddha allineati, seduti e, dico io per la musica assurda sparata a folle volume: sono in uso le feste de Nat, spiriti, e capita quindi di assistere a qualcosa di assimilabile a conviviali pranzi, intermezzi delle comunità del posto che festeggia condividendo cibo e bevande varie.
Musiche ripetitive e simili a quelle dei cartoni animati giapponesi procedono incessanti mentre accecati dal sole che riflette sul bianco e sull’oro delle costruzioni di procedere curiosi fra i fedeli.
Mingun: da vedere il Pahtodawgyi, monumentale stupa incompleta, commissionata dal re Bodawpaya. Se fosse stata completata sarebbe stata davvero la più grande mentre oggi invece la costruzione versa in condizioni piuttosto pietose ed è semi diroccata con crepe considerevoli ai fianchi. Il sito è interessante ma non imperdibile considerato che “dentro” non è visitabile e che è più interessante da lontano che da vicino per le mastodontiche dimensioni.
poco fuori statue di 2 leoni che però risultano anch’esse del tutto sbiadite e rovinate dall’umidità al punto da non essere praticamente riconoscibili. Poco distante si può ammirare la gigantesca campana che però risulta isolata ed abbastanza dimenticata seppure inserita nei percorsi turistici di tassisti ed improvvisate guide del posto. Pare che la campana sia attualmente la seconda più grande al mondo ma a vederla dal vivo non si rimane così stupiti né dalle dimensioni né dalle incisioni. Curiosità, se non ho capito male il peso della campana, pronunciato in birmano, ha una ridondanza ed un significato numerico scaramantico che tanto è caro, in generale, alla gente del posto.
Vista in ogni guida o reportage fotografico, la Myatheindan pagoda, la pagoda bianca, lascia appunto spazio a diverse pose fotografiche e meraviglia per la sinuosità del suo profilo regolare. Completamente bianca, praticamente deserta a parte che nelle alte stagioni turistiche, finalmente diversa per struttura e colori dalle centinaia di altre già viste nei primi giorni, è modellata sulla base di quello che doveva essere/è il monte Meru, ossia il monte sacro (secondo la descrizione dei testi buddisti)
Myatheindan

Myatheindan

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