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Gen 15
Basket: storie ed appunti di pallacanestro, Infinito, Racconti allenare, allenatore, coach, massimo soldini, pallacanestro, storie di basket No Comments
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Il treno si era disteso al binario della piccola stazione proprio mentre un raggio di sole andava sbucando, abbassandosi, dietro i grossi cespugli li di fronte.
Vecchie imposte di legno sulle quali campeggiava una scritta rossa, risanata di recente ma proveniente da qualche decennio indietro, da decenni in cui il paese, ma intendo l’Italia, andava ad una velocità differente, ad un ritmo lento ed attento per capirci meglio.
Lì l’aroma del caffè pareva più sincero e nelle tazzine di porcellana il naso infreddolito trovava un rifugio gustoso dopo aver vibrato davanti alla meraviglia dei dolci di riso che il vecchio pasticcere aveva appena sfornato. Il naso gli era sembrato si fosse scosso così come vibrano i baffi di un gatto curioso che annusa guardingo. Gli era sembrato tutto migliore e vivibile, gli era sembrato perfino divertente poter leggere un giornale seduto al tavolo del bar, circondato da vetrine di legno, senza nessuno in coda per ordinare, leggere. Gli era sembrato bello e non invadente anche il saluto familiare della signora del bar, quella col sorriso largo ed i denti macchiati dal rossetto chissà perché, chissà come. Allora aveva preso ad immaginarsi di migrare verso una provincia, oppure di viaggiare di più andando a cercare tutti posti di questo genere, tutte realtà così storiche, così medievali, così silenziose.
Aveva pensato di accettare, che si potesse fare, e così fece, lasciò l’altro lavoro. Poi l’aveva assalito un’inquietudine che bene conosceva, un franare di terra sotto i piedi, un non saper stare, un moto interno di rivoluzione che aveva anche rivisto in quella ragazzetta vestita di nero e truccata più scuro che si atteggiava a moderna punk per contestare chissà quale provincialismo quotidiano che sentiva l’andava opprimendo. Fra il freddo e l’umido di quel pomeriggio s’era risvegliato l’odore della sua crema dopobarba ed annusandola da sé si era rivisto davanti allo specchio intento nelle smorfie di suo padre impegnato a stendere la pelle a favore del rasoio. Aveva perso almeno mezzora lasciando passare qualsiasi treno, ficcando lo sguardo nella ragazza al binario 1, immaginando come e perché, le discussioni in casa, i conflitti di generazione, le frustrazioni di una adolescenza composta di qualche privazione necessaria per la gestione familiare, delle delusioni a prescindere, dei discorsi metafisici per capire senza ammetterlo cosa potesse essere davvero l’amore.
Intanto passavano i treni e passava il tempo e lui non aveva ancora sentito dentro quella sensazione chiara di voler tornare a casa. Si trattava solo di scegliere il momento migliore perché lui infine voleva e doveva tornare a casa. Svuotato, con lo stomaco annodato, ingoiava saliva come avesse un peso, come se dentro un subbuglio lo governasse, come se il risultato di tutte quelle battaglie, di quel rumore, delle serate sveglio a fumare, della pizza fredda, dei surgelati cotti ancora freddi di frigo, dei sigari fatti a a mano se va bene e delle tante sigarette se va male, fosse tutto li in quell’attesa al binario di provincia, tornando a casa, nell’ottuso silenzio generale. Tutta una stagione e dire e fare, gridare, consigliare, scrivere, appuntare, sperare, soffrire, mangiare male: tutta una stagione racchiusa ora in quel senso di vuoto finale, scorrelato perfino dal risultato generale: svuotato a prescindere come dopo ogni finale di stagione.
Ogni estate era così, se arrivava a maggio era stanco da non poterne più, da odiarli tutti, se non ci arrivava era invece un problema perché la stagione si era chiusa male e quindi quei 3 o 4 mesi diventavano la dilaniante attesa di una chiamata che sarebbe stata ancora più dura ad arrivare rispetto alle altre ottime annate. Un contratto di più anni era stata una chimera perché lo sport è così, legato ai risultati e perché la pallacanestro in Italia è tutta nella provincia piccola e genuina, nei centri piccoli, nelle medie economie.
La scelta di anni prima era stata sentita ma pericolosa perché lasciare un lavoro sicuro per fare l’allenatore era sembrato a tutti una follia. Io però lo avevo visto sempre così chiaro: per molti anni mi sono chiesto se poi esistesse davvero o meno fuori dal campo da gioco, se fuori da quel rettangolo colorato occupasse uno spazio, del tempo, se vivesse sul serio o se come aveva detto lui sopravviveva in attesa contando le ore di intervallo fra una partita e l’altra, fra un allenamento e l’altro. Era stata una follia, è vero, ma del resto lui allenava pure quando non lo faceva, anche nell’altro lavoro: un modo di dire, una citazione, due sue massime, un discorso motivazionale, un ricordo, un consiglio e qualche lite: alla fine ognuno per rabbia o per amore si ritrovava costretto a fare bene. Alcuni di noi lo odiavano così tanto da dovergli mostrare che erano migliori di come lui aveva inteso e così si ritrovavano poi ad odiarlo per averli costretti come voleva a fare bene, meglio di prima. Aveva ragione, spesso: tutto qui.
Aveva avuto tante famiglie e molti figli: ogni anno, ogni stagione ed ogni stagione l’arcobaleno dei colori delle sue tute via via accumulate gelosamente sonnecchiava in un armadio in casa sua. Tutto sommato pareva da solo ma non c’era giorno che non ricevesse una chiamata oppure un messaggio da qualcuno dei suoi giocatori, di oggi o di allora, di notte o fosse di giorno: costruiva persone, poi giocatori, rapporti, prima ancora.
Il rapporto con le società invece durava sempre poco di più di quanto avrebbe dovuto finendo per deludere entrambe le parti, finendo per irrigidire, rovinare, degradare. Tornava a casa per cominciare ad aspettare una nuova chiamata, una nuova avventura che avrebbe poi comunque maledetto come ogni volta.
Quando ho visto la sua foto, la foto qui sopra, scattata dalla stazione dalla quale era partito ho immaginato tutto quello che hai letto. Quella foto mostrata per cercare di capire, per cercare una indicazione di quelle ore, dell’incidente di poco dopo. Di quel giorno, invece, nessuno sa niente: né chi abbia sbagliato, né chi venisse da dove né tanto meno di preciso che ora fosse.
Io invece una cosa la so, so che mi avrebbe sgridato, che mi avrebbe detto che me ne ero “rimasto li a girare a vuoto tutto il giorno come la merda nei tubi” o qualcos’altro scelto fra le sue uscite volutamente troppo colorite dette per irretire, per canzonare e scuotere. Io non ho chiamato né ho scritto né tantomeno sono andato a trovarlo li al campo. Io non ho fatto né detto, non ho mantenuto l’iniziativa ed ho “disonorato me ed i miei compagni“, io adesso non posso recuperare perché “io la macchina del tempo non ce l’ho ancora! Per cui adesso, ragazzo mio, indietro non ci possiamo tornare“.
“Ragazzo mio”. Quante volte mi avrà chiamato così? Tante finché non eravamo stati tutti convinti di essere davvero suoi, figli o meno, finché il tempo che passavamo insieme ogni settimana non aveva finito per confondere i veri legami affettivi mistificandoli. Anche oggi li fuori eravamo tutti suoi figli e qualcuno avrebbe voluto esserlo sempre stato visto il casino dal quale scappava a casa, visto il rifugio di quelle regole disegnate su una lavagnetta che pareva contenere solo le risposte: “solo io e voi, il resto è fuori da queste linee disegnate per terra, il resto è lontano, questa è casa nostra”.
Io non ho avuto coraggio, non fosse altro perché in fondo temevo poi si rialzasse e potesse sgridarmi ancora una volta o forse proprio perché temevo di poter comprendere che non sarebbe mai più successo mentre quella scena era la sola che avrei voluto. Io non ho avuto coraggio di correre li come gli altri, di cercare di capire, di guadarlo sdraiato a terra, riverso: io non lo avevo mai visto nemmeno in ginocchio, figuriamoci ora, sdraiato e sconfitto del tutto… Io ho avuto paura, ecco la verità, per un sacco di tempo, un sacco di volte, e me ne accorgo anche ora guardandomi allo specchio mentre di là mi aspetta mio figlio e mi chiederà chi e cosa fosse lui per me. Aveva ragione lui, io avevo paura e si vedeva dagli occhi. La paura mi si vede negli occhi lucidi, nelle parole che sto appuntando per scrivere poi, per calmarmi un po’ stanotte quando finalmente la giornata sarà finita, chiusa, da incasellare.
Una paura che troppe volte mi ha paralizzato e che solo ora sto imparando a gestire: “mai colpi in canna”, ecco cosa mi sarei dovuto ricordare, ecco cosa, seppure in fine, mi ha insegnato andando via.
E’ troppo tardi, lo so da me: non ho la macchina del tempo, non posso tornare indietro.
Ciao Coach.
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