Set 27
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E’ notte anche se in realtà questo non sarebbe dovuto essere un pezzo qui ma un discorso in una serata, qualcosa da integrare con pause per fumo, pezzi da ascoltare e video significativi.
Il jazz è come la birra. La prima volta che la assaggi ti chiedi come faccia la gente a berne. Più avanti non riuscirai a farne a meno. Qualcuno invece in maniera molto più colorita, forse troppo, anni fa, aveva detto che il jazz è come un peto, un rutto: piace, fa sorridere, solo chi lo fa.
Il jazz è come un colore e non è possibile scriverne tanto più che spesso ci si rifugia dietro ad una canzone che possa identificarlo seppure espressione di una sola delle correnti di questa musica.
Michel Petrucciani è jazz però, questo posso dirlo con certezza: jazz, come parola viene da jam session la cui contrazione pronunciata dai neri americani dava luogo ad un suono simile all’odierna parola, e lui dell’improvvisazione ha fatto il suo marchio di fabbrica.
Francese ma di origine paterna italiana, senza perderci fra date, nasce con un destino che forse era parso già scritto, determinato, ma che saprà invece lui stesso capovolgere non scoprendo un talento, una inclinazione naturale ma piuttosto sapendo dal destino determinare una strada che poi sembrerà a tutti fosse stata da sempre la sua unica possibile.
Quanto fu destino, quanto inclinazione naturale o quanto invece capacità di volgere quella che Machiavelli chiamerebbe una maligna fortuna, questo no, non ci è dato capire.
Forse in ogni genio c’è dell’imperscrutabile.
L’osteogenesi imperfetta, “la malattia delle ossa di vetro“, malattia che lo fece nascere con gravi malformazioni ossee e l’incapacità di queste stesse di crescere e resistere agli sforzi più naturali fece pensare appunto al peggio, ad una vita che si sarebbe spezzata quasi sul nascere: è deforme, incapace di camminare, fragile all’inverosimile e così la sua adolescenza non è di certo reale, comune né tanto meno facile. Vive in una sorta di ambiente che lo tutela, la sua casa e le attenzioni della famiglia ma tutto gli è ostile dato che ogni mossa significa dolore, fratture, pericolo serio.
A 4 anni e segue interessato in tv Duke Ellington che anni dopo definirà coma la scintilla che gli fece venire in mente di suonare il pianoforte: grida, urla, indica vedendo suonare quel mostro di talento in tv: vuole un pianoforte ed i genitori gliene comprano uno giocattolo. Impetuoso e burrascoso come sarà poi per sempre spaccherà il pianoforte troppo piccolo, non reale per le sue aspettative. Nelle martellate con le quali distrugge quel dono c’era forse racchiusa tutta la forza di affermarsi, tutto l’esempio che credo ognuno dovrebbe tenere a memoria, dal quale imparare.
Il padre riesce allora trovare a buon mercato un pianoforte usato, preso alla base militare dove lavorava e Michel passa le sue giornate a studiarlo, a sentire musica, a professionalizzare quell’attrazione istantanea, a catalizzare le difficoltà e la solitudine delle giornate spese lontane da tutto, persino dalla possibilità di frequentare una scuola, in uno spasmodico studio del pianoforte.
Il padre chitarrista jazz ed i fratelli musicisti: una casa nella quale la musica insegna più dei libri: Miles Davis con i suoi dischi, racconterà anni dopo lo stesso Petrucciani, suonava incessante in quella casa ipnotizzandoli.
A 13 anni la svolta, il primo concerto: Clark Terry, trombettista ben più che affermato, è in città per una tournée e si ritrova non so dire perché senza pianista: Michel viene accompagnato sul palco, portato in braccio come un bimbo in fasce a causa della sua malattia: la sua statura (102 cm), le sue forme, destano stupore, curiosità, forse pietà e facili prese in giro. Lo stesso Terry attacca a suonare, temendo uno scherzo: una musichetta infantile credendo che quello messo a sedere sullo sgabello fosse un bimbo. In tutta risposta Michel non batte ciglio e risponde con un’improvvisazione di assoluto livello professionale.
Sono gli ultimissimi anni dei ‘70 e d i genitori di Michel non riescono più a trattenerlo, a proteggerlo visto che ormai è conosciuto, che ha iniziato collaborazioni e partecipato a registrazioni di album di successo. È il momento di uscire non solo di casa ma via via dalla Francia.
Il mito è già tale ed il tempo pare accelerare: tutti lo vogliono, tutti lo coinvolgono: Michel ha un tocco riconoscibile ed una capacità di improvvisazione fuori dalla norma. Le sue ossa fragili e deformi, mani comprese, lo costringono e pose innaturali a tocchi sui tasti di una pressione e di una intensità che diverrà emotiva, impossibile da replicare proprio per le quote fisiche. Ai pedali Michel non ci arriva ed il padre nei primi anni progetta un marchingegno simile ad una prolunga di legno con il quale il figlio riesce a premere solo uno dei pedali.
Si, esatto, Michel suona in maniera impedita a causa della sua malattia eppure in maniera così unica da non sembrare incompleta da non lasciar percepire che il pianoforte potrebbe essere sfruttato oltre.
Anni più tardi, invece, le più grandi case realizzeranno per lui pianoforti e sgabelli speciali, gli amici lo adageranno prima dei concerti su molli cuscini che gli permetteranno di raggiungere tutti i tasti del pianoforte ma non mancheranno i dolori, reali: spesso, infatti, suonando, Petrucciani si frattura le ossa e dalla nascita all’età adulta non furono rari i periodi trascorsi ingessato.
Con un piano su misura suona vivendo lo strumento nelle sue totali possibilità e sfumature, adesso gli anni sono di intensa produzione, di registrazioni prolifiche, di fonici appassionati a raccogliere quelle evoluzioni incredibili, dense, così tanto da far sembrare due i pianoforti che suonano. Le sue mani ossute volano sulla tastiera, veloci da sembrare ferme e le note, ai suoi ordini, trovano una posizione, un abbinamento che pare essere stato sempre il loro.
A volte negli album la sua musica appare inizialmente ridondante e Petrucciani a capo di un jazz di virtuosismi così complessi da sembrare meravigliosi esercizi e non musica, canzoni, per semplificare il concetto. Ad un orecchio non tecnico a volte può risultare pesante proprio per l’insistito uso di altissima tecnica ma ai successivi ascolti rivela invece sfumature imperdibili, la voglia di riascoltare e di abbinare quel pezzo ad un momento particolare, un po’ come succede con un vino.
Via via suonerà con i più grandi musicisti jazz americani, con i mostri sacri che prima vedeva in tv e sentiva suonare dal giradischi ed il tempo, i colori, gli spettacoli e la musica accelerano ancora facendogli conoscere un mondo del quale lui però pare già esperto, compresi vizi più o meno convenzionali e gravissime derive di alcol e droghe; un tratto, questo, in comune con molti altri jazzisti bruciati velocemente.
Ma Michel è unico anche in questo e va più veloce, beve e si droga di più, pare essere affamato di una rivalsa verso la vita colpevole di non avergli concesso prima tutto quello che per gli altri era invece stato sempre scontato.
E’ il 1999 quando muore, d’inverno, a causa di conseguenze piuttosto banali di un malanno polmonare; muore consegnandosi alla storia come una figura a metà fra mito e leggenda.
E’ sepolto al cimitero Pére Lachaise di Parigi, il famosissimo cimitero degli artisti: ma non basta, perché lui si distingue anche stavolta: muore infatti nel centenario della nascita di Duke Ellington e giace sepolto accanto a Chopin.
Dio solo sa lassù che cazzo di concerti stiano orchestrando lui, Miles Davis, Duke Ellington e lo schivo Coltrane. Se esiste un “di là”, uno “lassù”, allora di certo c’è grandissima musica.
So dame che la sintesi di questa storia non è solo parziale ma indegna, che ci sarebbero nomi, date ed altri aneddoti ma questi raccontati sono quelli che ho scoperto cercando, nei vari anni, anni fa, quando ancora internet c’era e le informazioni erano poche e solo in inglese.
Quelle che ho scritto stanotte sono le pietre miliari di una meravigliosa storia di resistenza e sofferenza, di musica ed arte, delle rinunce e delle vittorie di un piccolo grandissimo uomo.
Chiudendo il profilo del personaggio: ebbe 5 donne, importantissime relazioni, 5 donne che lui chiamava mogli pur non avendole mai sposate (forse l’ultima soltanto, una pianista, non ricordo), ebbe figli, uno dei quali ha eredità la sua stessa malattia.
Petrucciani è il condensato di virtù e vizi che tanti altri estrosi musicisti non avrebbero accumulato nemmeno tutti assieme, Petrucciani è musica e spettacolo, un artista capace di calamitare non più pena ed attenzioni morbose ma scaltra ammirazione.
Il suo tocco raffinato, la sua capacità di intrattenere, di riempire il palco traspare in ognuna delle registrazioni live, in ognuno dei video esistenti. Imperdibile il documentario sulla sua vita: da vedere (basta cercarlo su Rai replay oppure su Youtube in altre lingue)
Michel Petrucciani, l’uomo dalle ossa di vetro, è, era tutto questo: chi l’avrebbe mai detto?
Nessuno, a parte lui.
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