Direzione Pechino

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Treno verso Pechino/Beijing

In treno verso Pechino come la chiamiamo in Italia, Beijing come si chiama in realtà, verso Khanbalik (la città del Khan) come la chiamavano i mongoli di Gengis Khan prima e come la chiamarono successivamente i sudditi di Kublai Khan, suo nipote.

Una città il cui nome letteralmente significa “capitale del nord”, una città oggi di certo diversa da quella che vide e visse Marco Polo ma comunque densa di storia e di profumi, di odori e tradizioni mescolate nel tempo e negli usi dei popoli che si sono alternati.

Dinastie e conquiste, profonde tracce del passato, ma un città diretta ciecamente verso il futuro, ecco cosa troveremo, cosa in parte immagino, cosa ho letto.

Una città nata con la dinastia cinese di origine nomade Liao (circa 907), distrutta, assoggettata e quindi profondamente cambiata dall’impero mongolo di Gengis Khan nel 1215, risorta con la dinastia cinese Ming che di fatto ha posto le basi urbanistiche e non solo, della città odierna, divenuta realmente tale nel 1949 con l’esercito e Mao Zedong, con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese.

Da li a qui la città ha gradualmente perso grande parte degli edifici storici, degli archi decorativi, del carattere originale: il prezzo pagato al progresso leggendo la guida pare essere stato piuttosto ingente e se si pensa che molto spesso si sono ridotti in polvere metri quadrati di storia per agevolare il traffico la ferita pare ancora più sanguinosa.

L’arrivo è piuttosto semplice nonostante il digiuno a causa del sonno in treno durante il servizio pasti, nonostante le scarse indicazioni della metropolitana cinese, nonostante la macchina dei biglietti accetti solo banconote da cinque e dieci e solo col viso di Mao non troppo nuovo né troppo stropicciato. Zaini in spala arriviamo a piedi alla via del nostro hotel scoprendo che alloggeremo nel mezzo degli Hutong, vicoli quartieri storici, più che altro dedali di vicoli con negozi vari di artigianato, alimentari, ristoranti dislocati sulla via maggiore e piccole locande, cortili privati, porte storiche, agglomerati di casette basse nelle vie che si dipanano da quella.

La sorpresa è bella, meno il corpo a corpo a cui siamo costretti per percorrere i 600 metri circa che separano la stazione della metro dalla porta del nostro hotel: un esercito di persone in stato catatonico cammina lento e senza direzione scattando centinaia di inutili foto con discutibilissimi sfondi, altri mangiano camminando rovesciandosi addosso di tutto, facendo cadere cibo e bevande, la maggior parte, comunque, ha il telefono in mano e legge, chatta, guarda film, gioca a videogame. Una situazione che mi è sembrata più rovinosa che a Shanghai, preoccupante sul serio visto che le persone camminano, inciampano, sbattono, si fermano nel mezzo di una via noncuranti di chi altri vorrebbe passare. L’importante è rispondere al messaggio, continuare a leggere, finire la partita: persone adulte che ignorano i propri figli, che camminano a testa china quasi noncuranti del posto. A questo va unito il fattore determinante cinese, il numero, e la totale mancanza di buone maniere che determina cambi di direzione senza logica, code non rispettate ed un atteggiamento generale che stimola alla rissa ogni 10 metri considerato che il cinese medio non concepisce il concetto di spazio vitale e se siete fermi anche fosse in un angolo, probabilmente un cinese arriverà, si fermerà tanto vicino a voi da potervi pestare i piedi e per esempio comincerà a mangiare sbrodolandosi oppure a sputare in terra o semplicemente sosterrà a 10 cm da voi anche foste entrambi sudati e sotto il sole, anche se avrebbe altro spazio più avanti. Un qualcosa di inspiegabile e figlio della totale mancanza di educazione civica che un paese così ricco di storia e meraviglie non dovrebbe accettare né dovrebbe aver mai sviluppato.

Il tempo di mollare gli zaini nel nuovissimo albergo e via fra i vicoli, ma nelle traverse stavolta: vecchie signore siedono sventolandosi con ventagli artistici fuori da porte lucide, rosse e sormontate da travi di legno nero lavorato. Luci fioche illuminano cortili dai quali diramano vicoli piccini da sembrare ad ogni metro la fine della strada: lungo questi riposano bici sgangherate e piccoli motorini elettrici, curiose finestrelle rivelano vite private, piccole abitazioni e più ci addentriamo più scopriamo la profondità del quartiere, la calma, la riservatezza e la storia degli Hutong reali, distanti dalla bolgia della via principale resa commercialmente nuova ed attraente per quell’esercito di automi già detto. Dalle cucine delle piccole locande buie esce un fumo a tratti denso e grasso; l’odore di carne arrostita e speziata da sesamo e cumino attrae nonostante si senta benissimo che aglio e porro siano presenti in ogni dove.

Nessuno parla inglese, eppure la gente di Pechino pare più ospitale, più disposta ad aiutare, a sorridere ,a comprendere e conquistare gli occidentali. In un piccolo forno compro una sorta di panino con carne e verza su consiglio di un muratore in pausa e dopo le domande gestuali del sorridente e sdentato panettiere; più avanti punto la macchina fotografica sulle rughe di una anziana che scaccia lo scatto a grandi gesti, sulla destra conto oltre 20 contatori elettrici alloggiati dopo il primo ingresso del vicolo che riparte da una traversa del vicolo che già di suo era secondario: le piccole famiglie vivono stipate lì dentro, lì dietro. Le case non hanno bagni, lo deduciamo vedendo uscire le persone locali da casa ed entrare nei bagni che credevamo solo pubblici ma che invece rivestono doppia funzione o che potremmo dire pubblici in senso meno lato del termine, ossia comuni, tipo campeggio.

Lo spazio è microscopico, il labirinto notevole e mi è impossibile non immaginare, chiedermi come possa essere la vita lì ora, come fosse al tempo, in quale tempo, mi è impossibile non chiedermi come vivano quelle facce che ho fotografato, chi siano, quali siano le loro storie, le loro delusioni, i loro sogni, come pensi un giovane che vive li.

Seduta sotto un piccolo portico scalcinato una famigliola ci invita ad entrare per mangiare da loro, improvvisato “ristorante”: decliniamo non del tutto convinti considerata la media della ristorazione ufficiale e proseguiamo a camminare. Trovo assurdo che qui dietro sia di giorno che di notte, qui dove pare che gli Hutong siano più autentici, la folla non si accalchi e che continui a fare avanti ed indietro sulla via principale ormai equiparabile ad una vita occidentale, lo trovo assurdo e volgare, fastidioso e stupido ma forse gli Hutong sono così proprio perché calmi e poco assaltati dai turisti.

Così questa è la prima Beijing che si mostra, questo il reticolo urbano dei Ming, questa la cucina speziata e decisa delle carni di capra e montone del popolo di Kublai Khan, questi i vicoli decadenti ed untuosi ma pur sempre dignitosi degli Hutong.

Nei sorrisi rugosi ed un po’ sdentati degli anziani di questi vicoli mi pare di trovare più riparo e soddisfazione che nei visi severi ed arrivisti incontrati a Shanghai dove l’occidentale pare in ogni situazione, fosse anche la più banale, un problema del quale liberarsi più in fretta possibile.

Una sola riflessione mi consegna alla notte da dormire meno disteso: qui attorno i giovani li ho solo immaginati, di loro mi sono solo domandato gli Hutong sono abitati, animati, da gente ben oltre 40 anni e così in un attimo mi viene in testa che la loro stessa caratteristica sarà forse la loro stessa condanna e che tutto questo così speciale, finirà forse presto, che fra qualche anno sarà cambiato come la via principale sulla quale sorge quello che ora invece mi appaiono come mostri, il nostro albergo ed i suoi comfort.

M’assalgono l’ansia e la fame di viaggiare, di scattare foto, di conservare, di raccontare, di scrivere. Sono stanco, serro i denti, sognerò male.

Stazione di Shanghai Honquiao

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