Uluru e Kings Canyon
Ago 07
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Così, con la macchina carica, siamo partiti che ancora Alice Springs se ne stava come una tartaruga, per affari suoi. Qui dai motel escono macchine cariche di attrezzature per campeggio e si vede dai finestrini che provviste, attrezzi, panni e tendaggi strabordano per quel bellissimo eccesso di organizzazione che colpisce chiunque deve confrontarsi con l’andare fuori casa per qualche giorno, soprattutto se all’avventura, campeggiando, dormendo all’aperto. La direttrice è ancora una volta la Stuart highway e la mappa del centro informazioni turistiche è più che sufficiente visto che da qui si diramano un numero di strade che si conta con una mano: basta solo tenere presente che alcune, ma potrete scoprirlo dai cartelli stradali stessi, sono sterrate per più di 100 km così che le scelte siano più o meno obbligate così come le destinazioni.
Da Alice Springs si impiegano 5 ore circa per arrivare nella zona del parco: gli alloggi, che abbiate scelto lodge o campeggio, sono tutti vicini fra loro ed a circa 20 km dall’Uluru. Occorre considerare di star via 2 notti e di spendere 3 giorni fra albe e tramonti per visitare Uluru, Kata tjuta e Kings Canyon.
L’arrivo è confortante perché il campeggio è piuttosto economico (20 dollari a persona per un posto senza elettricità) ben curato con verdi prati all’inglese e spazi comuni funzionali tipo cucine, aree barbecue e bagni di tutto rispetto, il tutto alimentato da energia elettrica prodotta dai vistosi e numerosi pannelli solari. Il primo esame è montare la tenda rinchiusa in una scatola piccolissima che scopriremo poi contenere picchetti, tenda interna, tenda esterna ed uno scarno libretto di istruzioni che in 5’, una pietrata su un dito ed una bestemmia ci porterà in effetti a concludere il lavoro.
Così partiamo subito direzione Uluru: il grandissimo monolite si staglia nel paesaggio molti km prima di arrivare ai suoi piedi da dove partono i percorsi che permettono di girargli attorno e di scrutarlo scoprendo ora superfici lisce, ora rugose, ora versanti intagliati da vento ed acqua nel tempo di millenni. I sentieri sono pianeggianti e semplici anche se sterrati, a tratti ombreggiati: tutto sommato l’Uluru è più bello ed eloquente da lontano visto che poi l’unica attività degna di nota da eseguire una volta arrivati lì sarebbe scalarlo se non fosse che gli aborigeni lo considerano sacro. Ci sono zone che non è possibile fotografare perché rappresentano scorci di particolare significato per gli aborigeni che per millennni portando lì i loro figli hanno tramandato storie ed insegnato la vita a modo loro: lo testimoniano le piture rupestri e i grossi cartelli che spiegano in maniera piuttosto stringata leggende ed usi del popolo. Ovviamente abbiamo scelto di non scalare l’Uluru per rispetto. Visto il percorso preparato con tanto di corde credo che la vetta non possa comunque ingolosire nemmeno il più indefesso e pigro dei turisti.
Girando lì attorno ci si perde fra l’arte rupestre e quella naturale, fra le sculture derivanti da millenni di vento ed acqua, fra le superfici di roccia lisca ed accattivante, rossa così come il sole la illumina e come la sabbia rossa del territorio del nord “la sporca”. Il mio parere definitivo è che il monolite vada visto da lontano: campi di radi cespugli verdi e gialli distanti qualche km lasciano spazio ad un paesaggio fatto di poco eppure attraente. Nella luce del primo pomeriggio i colori contrastano fra loro e si lasciano apprezzare a distanza di sicurezza dalla folla che in questo periodo è comunque numericamente contenuta. Lungo la strada ci sono apposite piazzole utili a godere la vista del tramonto e spazi di fermata isolati buoni per fermarsi in tutta calma a scattare foto forse migliori di quelle ottenibili nel marasma generale: mi è sembrato infatti che ci fosse un’esagerazione nel decantare il tramonto ed i cambi cromatici che il sole donerebbe alla roccia. Intendiamoci, la scena resta suggestiva , ma viene sporcata dal traffico del punto panoramico, dai tour organizzati che apparecchiano tavoli per dare da bere e mangiare a grassoni turisti intenti in brindisi senza senso nel rossore della sera. Abbiamo ottenuto fotografie ed atmosfere migliori nelle nostre soste improvvisate a bordo strada quando nel silenzio dei cespugli, con l’Uluru di sfondo, ci siamo incaponiti in plastiche fotografie che ci ritraggono intenti a saltare fra i cespugli alla ricerca di non si sa bene cosa.
Per questo evitare i tour ed arrivare qui avendo affittato una auto si è rilevato ben più economico e più versatile considerando soste autonome, mobilità e possibilità di portare al seguito cibo e bevande da consumare al campeggio. 50 dollari totali di cibo, 42 di campeggio e 50 totali per l’ingresso al parco: ben distanti dai 500 circa a persona che un tour da Alice Springs richiederebbe.
La temperatura scende di colpo quando il sole finisce di illuminare la radura e di colpo si precipita in un inverno vero e proprio che fino ad ora non avevamo assaggiato qui in Australia. Così rientrare al campeggio è l’unica premura mentre la luce del sole spegne definitivamente il paesaggio e mentre incombe il semi incubo della notte in tenda e delle cena fredda (ah se avessimo saputo delle aree bbq da utilizzare…). Veniamo accolti da conigli che in tutta libertà saltellano fra le tende e mentre i campeggiatori più anziani ed esperti cominciano a cucinare sui loro fornelli medito di usare il mio fido coltello da escursione per guadagnare la cena. Ripiegheremo sui nostri fidi sandwiches imbottiti tanto quasi da necessitare di un elastico per tenere unite le fette di pane.
Il resto è buio pesto, persone che vanno e vengono verso i bagni usando lampade frontali e praticamente nulla da fare se non godersi stelle e silenzio nelle pause di sistemazione materassini e sacchi a pelo: la piccola tenda ospita 2 persone, non in piedi, e tollera perfino me sdraiato per intero. Il neo è la dimensione del sacco a pelo che mi lascia scoperto dalla spalle in su ma la soddisfazione e la stanchezza per l’escursione fanno sembrare tutto perfetto almeno finché non si prende sonno e le temperature arrivano a ridosso dello zero. La tenda scherma, fa quel che può così come il sacco a pelo dentro il quale siamo vestiti ma il freddo è davvero tanto così che ci si svegli spesso e ci si attrezzi ora per mettere il cappuccio della felpa indossata, ora per cercare di girarsi, ora per capire da dove diavolo arrivi quello spiffero d’aria.
La mattina il campeggio è ghiaccio e desolazione e mentre mi chiedo se i conigli ce l’abbiamo fatta a passare la notte oppure meno ci scongeliamo con un caffè preparato al volo nella cucina da campo: poi equilibrismi, la malsana idea di fare una doccia che seppure calda metterebbe a repentaglio le articolazioni causa gelo e via con le operazioni di smontaggio tenda. I picchetti sono freddi e le mani indurite dal gelo: la tenda umida di condensa così che ripiegarla in modo da rimetterla nella sua scatola è una missione impossibile. Con la scusa di farla asciugare al meglio la adageremo sul sedile posteriore dell’auto. Lasciar decantare i problemi: c’è un modo migliore per affrontarli?
I monti del Kata tjuta sono poco distanti e guidando piano per evitare di investire dingo o canguri che al mattino girovagano per le strade decidiamo che sarà sufficiente avvicinarci per qualche foto panoramica e nulla di più seppure la guida ne parla come al solito in termini entusiastici. La decisione è invece quella di andare verso il Kings Canyon a qualche ora di guida da qui e di approcciare il nuovo campeggio per poi iniziare del trekking: scelta a mio parere giustissima visto che li i km da camminare sono tanti e che le persone che decidono di andare sono poche. Molto poco pubblicizzato il canyon riserva infatti scorci spettacolari e crinali dai quali si gode una vista di tutto rispetto: il percorso è duro in prima battuta per farsi sconnesso subito dopo ma mai tale da impensierire fatta eccezione per quei tratti senza alcuna protezione dove davvero se si cede alla voglia di una foto avventurosa si può rischiare la vita. La montagna è tagliata con precisione chirurgica dal vento: tanto silenzio visti i pochi animali e paesaggi dai quali ciondolare le gambe contemplando tanto spazio natuale. 6 km circa per il giro completo del canyon oppure 1,5 per un assaggio dal basso che sinceramente sconsiglio visto che basta avere buona volontà, un paio di scarpe robuste e 4 ore di tempo per godere nel pieno il complesso montuoso. Alternativa un giro in elicottero per 95 dollari a testa: si c’è gente che preferisce questo e non ha difficoltà a camminare: lo capiremo mai? Attenzione, questa escursione è totalmente senza guida e l’organizzazione è inesistente: vista la complessità del percorso e la pericolosità dello stesso mi sarei aspettato quanto meno un registro di chi inizia e termina il sentiero così da avere una conta di chi è partito e chi è riuscito a tornare.
La strada di ritorno è fatta di improvvisate playlist, estenuanti ed inconcludenti ricerche di stazioni radio, soste nelle roadhouse per in caffè a temperature prossime alla fusione del nucleo terrestre ed un sandwich uova e pancetta per ripartire di slancio dopo aver infastidito gli Emu della fattoria inclusa nella roadhouse stessa.
Siamo stanchi ma soddisfatti: Alice Springs e la vecchia del motel ci aspettano come un traguardo aspetta il primo dei maratoneti fuggito dal gruppo. La stanza anche stavolta è grande quanto casa a Roma: fra l’angolo cottura, il bbq in giardino ed un paio di giorni per ricaricare batterie e fisico assageremo la vita “cittadina” tranquilla e viziata come se abitassimo qui. Ci aspettano scorribande al thirsty camel alla ricerca del vino bianco australiano, fresco ed aromatizzato, sorrisi impacciati ai poliziotti armati fino ai denti che, inspiegabilmente, vigilano i negozi di liquori, pomeriggi lungo la piccola via centrale dove la domenica apre un mercatino, la spesa da Coles fra falsissimi piatti italiani, dosi di carne utili a sfamàre 30 persone ed inspiegabili alimenti tipo buste di colli di pollo, buste di sole parti finali di ali di pollo, carni essiccate di canguro e coccodrillo e l’immancabioe Vegemite, orgogliosamente definita cibo australiano: una crema da spalmare, nera e densa, salata, ricca di vitamina b che spesso viene proposta a colazione e che secondo me è buona mai.
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