Paria

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Esistono le caste, in India, dove la religione governa ogni azione, esistono in Italia, dove indirettamente ed invisibilmente si vivono una miriade di vite differenti, alcune coraggiose, altre meno, alcune ricche, altre di sussistenza, qualcuna di sopravvivenza.
Così esistono i paria, gli ultimi della casta, i nati così e così rimasti per credo religioso, per effetto della vita precedente, per una sorta di pena comminata dipendente dalla tenuta del loro essere stati prima di oggi.

In India tutto ha un senso, un senso che qui invece è misurato su di un’altra scala, con altre modalità e caratteristiche. 

Mi vengono in mente storie di semplicità, di illusoria emancipazione, bassi profili ai quali piace credersi alti, fingersi migliori, sentirsi adeguati ma non per brama quanto per necessità, per bisogno di rifuggire quel disagio sottile e tagliente che li separa dal resto delle caste. 

Così esiste chi tutto misura, chi tutto pondera, chi tutto conta, chi vive facendosi bastare e sorridendo comunque. Non è povero chi non ha nulla quanto chi, invece, sente il bisogno degli oggetti che non ha diventandone quindi dipendente.

Seneca, scrivendo a Lucilio teorizzava questo nei suoi consigli per vivere felici. Adesso sul treno ne leggo digerendone a piccole dosi i concetti che rivedo andando avanti con la vita, sentendoli veri e ben radicati nella realtà di ogni tempo.

I paria, i nuovi paria sono quelli che accettano, che senza ambizione. Vivono, non resistono perché nulla sentono di dover combattere o cambiare: qui sta il punto, il distacco. 

Forse allora è vero che prima del Nirvana occorra una vita da ultimo, vissuta distaccati dai bisogni, da concetti non naturali ed imposti come soldi, lavoro, proprietà.

Forse quegli ultimi indiani così come i nostri più semplici affini non sono poveri come Seneca scrisse a Lucilio, forse non sentono bisogni.Eppure sento in loro un capire la loro condizione, un nasconderla, a tratti, pur senza vergogna. Non sono poveri, non ne soffrono né cercano emancipazione pur non essendo distaccati dai concetti rifiutati dai paria indiani. 

Fra bassi stipendi e case concesse da enti, fra piccole e grandi rinunce tirano avanti con dignità ammirevole, serenità invidiabile.

Eppure io sento la mia solita rabbia per il non vederli combattere, per il loro non voler cambiare. 

Molta gente non è felice né soddisfatta della propria vita ma non trova il coraggio di cambiarla: da qui la mia rabbia, per l’orgoglio dei cambiamenti che io ho applicato soffrendo, per quella salita che ho vinto, per quel senso estremo di soddisfazione e pienezza che ora sento pur capendo di non essere ancora giunto.

I nostri paria, i nostri ultimi non combattono e mi lasciano a chiedermi se non lo facciano per viltà, per scarsa considerazione di se stessi o se come i loro colleghi indiani, per aver creduto di capire o per aver capito davvero quel senso di distacco benefico, quell’emancipazione dall’accezione così diversa da quella più comunemente concepita.

Soffro di quel disagio riflesso, di quella sindrome del comico che non fa ridere quando percepisco queste situazioni, quando entro in relazioni con queste vite. Sento alla bocca dello stomaco una stretta malvagia, una vita cattiva, ma mi rendo conto di essere uno straniero che combatte una guerra non sua.

Mi vengono in mente quegli alberi anziani, ritti anche se piegati dal tempo, sopravvissuti a stagioni, imperturbabili e sereni nonostante tutto. Distaccati.

Penso a quei paesaggi distrutti in India, a quella primordialità che riaffiora prepotente, a quel rifiuto di crescita e sviluppo, emancipazione. Penso che lì ho cercato di capirli, che lì ho capito di aver smorzato la mia rabbia, di aver accettato alcune diversità.

Ho pensato che “Tutto quello che esiste è bello!!!” e che ne sono convinto, sopratutto ora che non sento il dovere né il diritto di dovermi difendere, adesso che non sento come errori tratti che ho capito identificarmi, adesso che non sento rabbia se qualcuno parla della mia famiglia, ora che sento il bene di concedermi mentre parliamo e mentre con la tua intelligenza appuntita, le tue parole chirurgiche osservi, capisci di me e di noi, della mia storia che prima avevo sempre sentito di dover camuffare.

Penso a mia sorella, con dolcezza mista ad una pena edulcorata e complessa, con comprensione ed una consapevolezza diversa , penso a mio padre, lasciatosi andare non appena la vide iniziare a sistemarsi, penso ad un puzzle che si compone pian piano rendendo chiaro il dipinto.

Rivedere Judith è stato bello ed importante. C’è stato un attimo di silenzio nel quale ci siamo guardati e nel quale mi sono sentito certo che avevamo inteso la stessa sensazione. Avrei voluto parlarle di più per dire e raccontare, per il gusto di ascoltare ed invece non sono del tutto soddisfatto di me proprio per non averlo potuto fare.

Sento più forte l’idea consapevole di poterla rivedere presto, del senso più ampio e rotondo di questo.

Il treno sta per mettere il muso a Roma, è di nuovo primavera.

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