Routine

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…contenuto riservato ad un pubblico adulto…

 

 

 

Lo sferragliare della catena teneva viva la sua attenzione mentre lei armeggiava per impugnare i manici di tutte le buste.

Metodicamente, lui, fermo sul marciapiede opposto legava la moto all’ultimo palo segnaletico lì all’angolo; non pensava e nient’altro che alle evoluzioni delle maglie della catena, a come non far loro toccare il cerchio, poi la plastica verniciata.

A darle una mano, avendola notata lì in equilibrio precario fra le altre auto in sosta, no, non aveva pensato, troppo distratto da se stesso.

Sfregava le dita sul palmo della mano, per scrostare il grasso che ogni volta le macchia a fine operazione.

Lei intanto sbuffava nuvolette di fumo causa freddo; un po’ dentro, un po’ fuori dalla portiera socchiusa. Il posteggio sotto casa, almeno stavolta, era stata fortuna distillata ma parcheggiare era stata l’impresa più dura delle sua settimana.

Le era salito il vestito di lana verde, sporgendosi, infilando un piccolo polso nel manico dell’ennesima busta.

Era sbucata fuori dall’abitacolo mentre lui maniacalmente faticava con le sue mani da pulire.

Lo aveva sorpreso decisa: “potresti anche darmela una mano, non credi”? E lui aveva finito per sentirsi ancora accusato, scoperto come un bambino: giocare anziché studiare.

Sorrideva, attraversando. Impacciato reggeva la portiera perché sapeva che provando direttamente avrebbe attirato altri rimproveri… ed in parte perché la cintura nera, sul vestito verde era una soddisfazione non trascurabile da osservare.

Buste fuori, portiera chiusa, tutto al suo posto a parte la catena che ora toccava in terra anziché essere sospesa, per non sporcarsi, sul pedale del freno della sua moto.

Di corsa come se esistesse un attimo esatto da non dover lasciare passare per riuscire a risolvere: di nuovo al di là del marciapiede e di nuovo nuvolette di freddo dalla bocca di lei, ora innervosita.

Entrata, guardandolo però con un’espressione a metà fra divertimento ed interrogazione, poi un calcio al piccolo tappeto consunto dell’androne per bloccare il portone di ingresso gridando prima di sparire sulla prima rampa di scale: “se vuoi mangiare qualcosa, sbrigati!

Aggrottando la fronte:era stato preso ancora di mira dalla maestrina cattiva di turno. In tutti i suoi 33 anni non era riuscito a non sentirsi in difetto anche per una semplice battuta ed a non sentire il bisogno di rimuginarci su una volta arrivato alla sera.

Aveva imboccato la prima rampa di scale, poi la seconda rallentando, pensando stupidamente di essere stato troppo veloce e di averla lasciata indietro, magari  alle cassette della posta in ingresso oppure  al primo piano, dove c’è sempre qualcuna delle gattare di Roma, in ogni palazzo, appostata  dietro la porta, pronta alle chiacchiere che aspetta da tutto il giorno vuoto appena vissuto.

La porta socchiusa, la luce accesa lungo il percorso bruciato dalla fretta: effetto dell’acqua forzata a bere durante il giorno e per la cena da preparare.

Così si era chiarito il dubbio: lei era già dentro quindi ed iperattiva come poco fà, là in strada, fra riprenderlo, tirarlo, accelerarlo.

Aveva già su le ciabatte  rosa, ormai nere dal  piede che, camminando, premeva sull’esterno trascinandosi stanco, ogni sera, sul pavimento sempre da lavare: rimandato sempre al giorno dopo.

Lui era molto più metodico e lento, dai ritmi e dai pensieri soffusi, come fossero atmosfera, musica lounge.

“Senti, mi dai una mano ad apparecchiare? Solo pasta ti basta no?” Ridendo per lo sciocco gioco di parole.

Senza parlare aveva cercato nei cassetti le posate, sorprendendosi sopraffatto della voglia di raccontare della sua giornata, anche se poi era solo un’altra di quelle in cui si era sentito insicuro ed inadeguato.

Nel frastuono delle pentole e di lei che sbattendo, assaggiando e correndo disordinava la cucina ed il piccolo tavolo a cui lui si dedicava, il discorso scorreva senza sorprese, interrotto solo ogni tanto da domande di confusione generale. “Cioè, Vincenzo è il tuo dirigente, no?” oppure da concetti rivoluzionari, rimarcati, fatti di incitamento a dire oppure a fare. Concetti totalmente inapplicabili per la fragilità di lui.

Mangiare con qualche sorriso ed una familiarità spontanea, mescolata al sottofondo della tv, usata a mò di radio ormai, sommersa da canovacci .
Un po’ di noia, va ammesso. Sara e robusta routine. Di quella che ognuno può vantare in casa sua.

La mano aveva sfiorato l’altra svolazzando sulla tovaglia a quadri. Una mano aveva catturato d’istinto l’altra.
L’altra si era lasciata andare senza nessuna sorpresa. La guardava ghignando mentre lei era seria come se avesse già preso una decisione.

Lo carezzò sul dorso della mano con un unghia che lui seguì fino alla fine della corsa, seppure breve, sentendosi scosso come da un’onda lunga, in grado di risonargli a lungo dentro.

Aveva allungato il collo di suo già “molto Modigliani” e si sporgeva per sorprenderla con un bacio deciso che poi troppo deciso non poteva essere: per lui, infatti, il dubbio del verso da cui avrebbe inclinato lei la testa significava fin troppa instabilità.

Le labbra sottili invece erano rimaste serie, forse impigliate nella stessa idea, forse stupite.

L’odore della sua saliva sulle sue stesse labbra.
Lui poteva sentirlo, ora, solo ora, in quell’attimo di infinito  avvicinamento.

Ne distingueva l’esatta chimica: quella saliva, su quelle labbra; la mistura equilibrata e rassicurante dell’odore del fumo delle sigarette e del chewing-gum alla menta.
Il tutto era un essenza che lui avrebbe imbottigliato, l’aveva capito ora, per drogarsene ancora.
Le labbra lucidate solo dalla saliva, l’odore, l’idea che potesse essere ancora ed ancora lo stordirono finendo per affogarlo nel morbido bacio. Mollò i muscoli come vinto da un male, e sentì le ossa sciogliersi al punto da non sentirsi forzato, a mezza altezza seduto per poter arrivare fino a quella kokeshi in carne ed ossa.

Poche parole per raggiungere il divano, pensava lei, stupendosi poi d’essersi mentita, poggiata sul tavolo mentre la scena era girata come nelle soluzioni di regie cinematografiche, sull’alzarsi lento di lui.

Un bacio ancora, e poi ancora, profondo, fin dentro, a cercare la lingua e l’essenza capace di spazzare via le idee. Le mani contenevano ora il viso di lei mentre la chimica faceva il suo, lasciando reagire la miscela di sguardi e sapori.

Un pizzico chirurgicamente preciso sul capezzolo impunito, stagliato sul vestito verde… poi una pausa dal bacio, vissuta  a viso lontano, mentre continuava la saporita tortura. Lei lo cercava, preda dello spasmo di sentirsi accolta ancora in un bacio,  stretta nella carezza della mani sul viso, ma non era capace di muovere un passo per cambiare posizione.

Lui mormorava richieste figlie della delicatezza e del dubbio che lei preferisse altro ma fermandosi rimase stordito nel seguire le sue mani sbottonare la camicia e ripagarlo anche se più freddamente. L’immagine. più che  la sensazione stessa provata, lo travolgeva con la violenza di un pugno incassato a sorpresa.
Aveva avuto la voglia di inginocchiarsi per servirla e trattarla come una dea. E così si erano intesi  lasciando ancora il divano distante.

Nel riflesso della finestra, la luce della lampada li distorceva ancora vestiti, imbarcati in un viaggio dalla meta chiarissima, da portare a termine con un percorso di sali e scendi in grado di spezzare fiato e parole.

L’orologio, i piatti sporchi, il lavoro gli amici da chiamare, gli sms in arrivo e quelli in partenza: era tutto fermo in un quadro perfetto dove il tempo pareva scorrere solo perché davvero ne valesse la pensa e non per doverlo  fare di forza. Era come se la vita scorresse solo lì, solo per loro, solo perché in due quella chimica aveva avuto un effetto che non avrebbe avuto altrimenti.

Il suo sapore sulle labbra gli ricordava l’effetto devastante di una droga e sentirla spingere per cercare il punto esatto lo soddisfaceva anche se di fatto lui era digiuno.
La aspettava mentre la sentiva ansimare, fermandosi e risalendo per annusare l’aria tagliata sottile, profumata e tiepida che usciva dalla sua bocca. Bagnarle le labbra con la sua saliva, cercare la sua lingua con un dito per poi passarlo sulle proprie, come per disegnarsi.

Scendere ancora fino ad indurla a resistere per aver sentito la colpa dell’egoismo sessuale; rassicurarla a piccoli gesti, col suo profumo della prima mattina ancora sul collo, denso come tabacco ma reso dolciastro dal calore dell’abbraccio e dai baci trascinati sul collo. Rassicurata a piccole dosi, a piccoli passi, trattata come una dea da soddisfare, sull’altare delle voglia, rinnegando il senso per se stesso. L’aspettava rilassarsi via via, mollare la presa, stringere il tavolo in una presa in cui le sue mani gli sembravano quanto di più eccitante e perfetto, seppure immobile e desiderabile, potesse pensare l’umano desiderio. Lei aveva mollato i muscoli mente lui insisteva: era riuscita solo a curvarsi da un lato, resistendo in piedi, investita dal piacere, ancora accolto da quella bocca.

Accendendo una sigaretta s’era abbandonata in una abbraccio che sapeva di stanchezza dolcissima; aveva preso ad imboccarlo: fumare dalle sue mani riusciva a farlo stare bene. Dentro sentiva una bestia viva ma averla soddisfatta lo rendeva felice.

La routine era tornata indietro. Forse era solo effetto del fatto che era lei, la routine, a dominare la vera vita di ogni giorno.

Senza altre parole, quasi in maniera del tutto distaccata, si erano sciolti, slegati, stavolta ognuno fumando di suo. Solo qualche sorriso a riprendere lo stupore di tanta differenza col mondo di poco prima.

La voglia di sistemare la cucina non c’era davvero così come forse non c’era la voglia di riprendere col sesso, vittime ormai dell’impaccio del momento poco intimo, dell’incomunicabilità, delle parole che lui credeva ormai d’aver capito essere dure ad uscire dalla bocca di lei.

Grattò quasi il pavimento, lei, diretta verso la camera. Lui l’ aveva seguita spogliandosi lento mentre lei si interrogava, già girata dal lato opposto. Disordine immobile sui comodini e coperte leggere.

Tutto sommato dormire insieme sarebbe stato comunque bello anche se lui sentiva la voglia di parlare, spiegare e chiedere. La stessa voglia che negli anni aveva imparato a trattenere metabolizzando la convinzione di dover “servire” le donne senza chiedere, solo sperando che le cose potessero scorrere  anche nel modo che lui avrebbe voluto. Aveva imparato e deciso di parlare meno, spiegare niente, accettare, forzarsi a farlo almeno.

La notte andava, forse anche veloce, o almeno questa era la sensazione che lui aveva. Lei si era scossa per un brivido: freddo, lì in mezzo alle spalle da cui sembrava sgorgare l’odore che lui sentiva, stretto alla sua schiena, sonnecchiando come un soldato in attesa del suo turno di guardia.

Un piccolo bacio, condito dall”alito tiepido a rassicurarla, per far ripartire il sonno, la notte buia.

Lei si sveglierà fra qualche ora. Lui ha già deciso cosa scrivere e sonnecchia sicuro, adesso.

Si alzerà e lascerà un biglietto.
E’ sicuro, intanto, mentre aspetta l’ora di andare: ha già dato uno sguardo alle tante chiamate perse arginate con un sms mentre la pasta finiva di cuocersi, ieri sera.
Il suo amico fermo là sotto all’ingresso del ristorante cinese dove avevano appuntamento ha più o meno capito, o meglio, forse accettato.

Il biglietto sul frigo, tenuto da uno dei magneti, la illuminò la mattina seguente nonostante il sonno.

 

Mi chiamo Luca. Ci vediamo martedì prossimo? 3495….

 

 

Massimo

 

 

 

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