Rifugiarsi
Nov 25
Racconti massimo soldini, nella pancia del metrò, racconti metropolitani, rifugiarsi No Comments
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Si erano rifugiati nelle loro vite.
Lui, lei, senza dirlo ne farlo consapevolmente.
Chiuso nel bavero, al ritorno dal lavoro, sbadigliava nella pancia del serpente di ferro.
Il metrò serpeggiava fra le curve della galleria così come i suoi pensieri, da ascoltare fra se e se col sottofondo dell’ennesimo violino gracchiante: l’ambulante di turno.
Rassicurante, questo pensava. Era rassicurante essere organizzati, ordinati: il lavoro, le scarpe, la casa, il “da fare”.
Organizzare lo costringeva a fare, lo impegnava ed in qualche maniera riusciva a farlo sentire svanito, come con un vino forte, che acceca di forza, che regala una falsa amnesia.
Non pensare: facendo, organizzando.
Alla fine la sua vita era perfetta, pensava; organizzata appunto, impegnata. Non mancava niente, nessuno, se non se stesso, quello vero.
Bugie, come al solito, come era abituato a dire, senza alcun bisogno, come quasi a doversi tenere allenato. Bugie a prescindere, anche a colleghi, rispetto alla sera prima, al pomeriggio ed il da fare fuori d’ufficio. Senza motivo, per non dare riferimenti, ragioni, o forse davvero per allenarsi all’infrastruttura della bugia, alle correlazioni di cui le bugie hanno bisogno per stare in piedi.
Mentirsi però durava qualche ora, forse giorni, per poi tornare a tormentare. Si sorprendeva a mormorare parole improvvisate quando un pensiero capace di metterlo a disagio lo coglieva.
Così anche camminare verso la prossima fermata utile del metrò poteva essere una malnata occasione: ripensare a quella volta che… E subito, come per difendersi, giustificarsi o mascherarsi, sviava il pensiero vomitando parole. “Santo dio” , “dentro!” “si, e dai” “ eh si si”.
A voce alta, fra qualche riso nascosto del passante di turno, di chi seduto accanto a lui viaggiava convinto della sua ridicola stranezza. Era più rassicurante lasciar credere fosse disturbato piuttosto che non sviare il discorso; come se poi le persone potessero averlo sentito ricordare di quel suo errore, di quel’inadeguatezza che aveva mostrato poi soffrendone dopo: l’impreparazione, in generale, alle situazioni, che fossero anche di vita sociale, poteva metterlo a disagio.
Aveva odiato quel cementarsi di certe sensazioni chiarissime, come fossero state fotografie scattate da un osservatore esterno, come video da audio ed immagini in grado di stagliarsi nella confusione generale di un qualsiasi pomeriggio. Perche cazzo quei disagi interiori rimanessero lì dentro a lui rubando posto a qualcos’altro di bello no, non era chiaro e sapeva di una legge del contrappasso più che mai ingiusta.
“E certo, certo”. Gli occhi verdi della vecchia seduta accanto a lui lo studiavano sorpresi. Le rughe a raggiera della sua bocca erano il centro dello sguardo di lui, non più in grado di sorridere per riprendersi, perso per sua fortuna ad immaginare la storia di lei. Gli anni della gioventù vissuti da bella, poi il matrimonio, i figli; e continuava a credere che le, la vecchina, fosse di “lassù del nord” e che fosse a Roma perché venne qui ad insegnare, che combattesse ancora cercando di far resistere le sue tradizioni fra quelle dei figli, da sempre diverse, geograficamente. Un capello di lana verde, come fosse svenuto sul capo, s’abbinava perfetto sul cappotto marrone; due colori che parevano due gusti di gelato densi, pesanti anche cromaticamente gustosi.
Due fermate prima della sua, pensava, c’è una gelateria con i gusti dai colori caldi, più voluttuosi che gustosi. Soddisfazione di occhi prima che gola.
Aveva dimenticato del tutto quel nuovo disturbo, l’idea che tornava, la vergogna, il disagio. Pensava a quanto avesse potuto divagare facilmente e nel farlo, immancabile, riaffiorò un errore. Stavolta lei compresa, con il bagaglio spigoloso e pesante di una lacuna scavata nei giorni dopo l’addio a colpi di sensi di colpa.
Tutto sommato non si amavano, o almeno così il vocabolario gli aveva insegnato in una sera in cui ci si era tuffato rifuggiandosi nell’incasellare le cose, le persone, i fatti.
Eppure l’aveva inseguita, la inseguiva ancora, forse, sperando fosse una irrinunciabile droga, da prendere per andare, tornare quanto dopo possibile. Tornare ad un realtà, che tutto sommato, in questi giorni, pensava che non sarebbe poi stata diversa: e stavolta era lì che si impigliava a soffrire.Non bastava organizzarsi, distrarsi.
Si sentiva come in gabbia, braccato da se stesso, da dentro: ora i motivi erano tanti, pungenti come aghi in gola; e si sentiva strangolato, sentiva di non poter scappare e che per quanta confusione avrebbe potuto generare questa non sarebbe bastata a dimenticare, lavare via, cancellare.
Il tormento allora era fastidio puro, una mente impegnata solo per quello,e non bastavano i mozziconi delle parole mormorate od il libro che teneva aperto senza leggere davvero, fingendo poi di ridacchiare o di socchiudere gli occhi come stesse gustando le parole lette, appena lette: fisso, un disturbo fisso.
Il vagone era vuoto, il treno quasi del tutto e sembrava davvero d’essere dentro la pancia di un serpente che l’aveva ingoiato, da cui non poteva gridare od uscire. Si sentiva schiacciato ma senza peso, imploso.
Aveva aperto la bocca, passandosi dopo una mano sulla barba dura che ricresceva sul lavoro preciso del rasoio della mattina;
si accigliò come per guardare in alto, senza alzare la testa.
Sono sceso alla fermata prima della sua, ammesso che quella fosse la sua.
Una scarpa sui binari, segnata dal trascinamento di poco prima, era il particolare che i fotografi avevano colto, il particolare che in effetti colpiva di più i lettori del giornale gratuito distribuito ogni mattina alla fermata stessa.
Una scarpa senza lacci, uno stivaletto liscio ed elegante.
Poi quei segni di striscio, sul lucido perfetto della tomaia.
Una foto d’effetto, un particolare che non diceva niente del totale, della storia tutta e che pure colpiva.
Colpiva e feriva al punto che ognuno lo focalizzava così tanto da volerlo scacciare: un particolare così normale da non poter non essere pensato, un frammento del tutto che, se pensato, lasciava appunto riaffiorare la storia, con quello che ne conseguiva, che includeva.
Un particolare, la scarpa, impossibile da dimenticare, da scacciare pensando ad altro, anche mormorando fra se e se qualcosa di confuso, anche a voce altra, per rifugiarsi.
Nella propria vita.
Massimo
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