Sud est

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Sampan, Vietnam

Discendendo la schiena sinuosa del Mekong, fra Laos, Vietnam e Cambogia c’è tempo per pensare e per riscoprire ritmi che non appartengono più alla nostra società definita presuntuosamente evoluta.

Le sampam, barche lunghe, sottili e rugose come frecce primordiali, solcano l’acqua verdastra e calma mentre attorno percepisco come una presenza costante l’umido del caldo di giorno, il fresco della notte. C’è silenzio ed è rotto solo dagli animali che lungo le sponde fangose oppure in acqua riescono ad animare il quadro.
Tengo gli occhi puntati ovunque, aperti e larghi; tengo lo zaino fra le gambe e custodisco dentro una voglia di catturare tutto, per riuscire a metabolizzarlo, senza però riuscire a farlo davvero nella pratica.
Sento dentro una smania smisurata, un senso di impotenza nato davanti alla meraviglia di quella quantità naturale; sento dentro che “andare” e “scoprire” sono sentimenti palpabili.

Nel fumo denso delle sigarette del barcaiolo, rollate con tabacco non raffinato, respiro i ritmi di un tempo che non ci appartiene più, che forse non ha mai fatto parte del nostro popolo, un ritmo che mi riporta alle esplorazioni primordiali.
Cosa doveva essere l’Asia centinaia di anni fa, come appariva agli occhi degli europei, dei primi viaggiatori?

Saigon, Ho Chi Minh City post guerra, è un Vietnam diverso dal nord, profondamente.  Cantieri, palazzi, centri commerciali e scarso verde. A circa 40 km a sud est c’è una foresta di mangrovie dichiarata dall’Unesco riserva delle biosfera: la foresta di Can Gio è solcata da fiumi lungo i quali vivono piccole sub popolazioni, piccole tribù come altro potrei definirle.
I ritmi delle maree scandiscono la vita di quell’area umida ed a tratti malsana: Can gio è un polmone importante e le radici della mangrovie costituiscono anche un’importante barriera fisica, di depurazione.
Le persone che abitano queste sponde, questo labirinto di fiumi poco tracciati sulle nostra mappe arricchito di affluenti che oggi vediamo senza la certezza di poterli ritrovare tal quali fra qualche tempo, si occupano della foresta come di un figlio malato.
La guerriglia di quegli anni così bellicosi spinse l’esercito USA ad usare l’agente arancio, potentissimo defoliante utile appunto a denudare quelle aree dove l’esercito vietnamita si rifugiava, costruiva cunicoli, organizzava agguati. Quest’area era praticamente scomparsa, diventata palude desolata.

La costanza ed il metodo della gente di qui ha permesso nel tempo di reimpiantare le mangrovie e superare i problemi del defoliante che ha avuto conseugenze per oltre 20 anni su vegetazione e purtroppo popolazione.
Donne minute fungono da guardie forestali: pattugliano, curano gli argini, reimpiantano. Tengono d’occhio le maree, persistono rifiutando il nuovo Vietnam, rifiutando Ho Chi Minh city e forse come me la chiamano ancora Saigon.

Nel verde ingrigito di queste foreste, di questi fiumi, si stagliano chiari i loro non là, i cappelli di paglia tipici vietnamiti. Con questi i vietnami si proteggono dal sole, scacciano insetti, portano acqua, riso, raccolgono frutti. Le loro fisionomie tutte simili ad un “occhio tondo“, occidentale e poco attento ai dettagli, vivono in maniera schiva e solitaria.

Piccole famiglie di 2 o 3 componenti, tutti magrissimi, scalzi per la maggior parte del tempo: usano acqua piovana, vivono arroccati sui fiumi, usano qualche strumento tecnologico come vecchissimi telefoni cellulari in grado di ricevere segnale solo in alcune posizioni più in alto, come sul tetto della loro capanna oppure su un albero. Il coraggio di queste persone, l’amore per la loro terra e la loro natura mi spinge a pensare in silenzio, nascosto sotto un altro tipo di cappello, ma sotto lo stesso cielo, sotto l’identica idea più generale di appartenenza, conservazione e semplicità.
Ripenso a tutti gli anni di quella guerra, ai libri ed i film sul tema, alle mie letture notturne a quanto tutto cambi velocemente e possa sembrare lontano pur essendo, come è successo qui, ancora presente. L’agente arancio è stato usato fino al 1971, per 10 anni quindi: oggi se ne vedono ancora gli effetti.

Mi hanno spiegato che la foresta è stata ripiantata praticamente solo da donne per via del fatto che sono più agili e riescono quindi a districarsi meglio con le gambe del tutto ficcate nel fango della palude. Io credo che dovettero farlo loro perché molti degli uomini erano in guerra, morti o vivi che siano poi tornati.
Sole o pioggia; poco riso, tanto fango: nel 2000 l’Unesco ha dichiarato quest’area riserva..

Vorrei parlare con qualcuna di loro ma riesco solo a perdermi nei miei pensieri adesso confusi ed accelerati. Guardo i loro denti poco curati, imbruniti da cibo mal conservato, dal riso misto a sorgo scarsamente decorticato per via della resa che altrimenti sarebbe scarsa; smarrisco del tutto la via pur essendomi affidato ad un esperto barcaiolo.
Ho perso il filo in realtà, la ragione: non c’è niente da vedere qui più a sud eppure sento di dover rimanere ancora, di dover poi tornare, di stabilirmi in qualche posto del tutto simile ed allo stesso tempo mi sento scurito dentro, confuso in un misto fra malinconia ed irragionevole tristezza.

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