Ago 28
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Yangon Swedagon Pagoda
Grande come parecchie delle metropoli del sud est asiatico contiene in se 3 città molto differenti fa loro.
- La downtown, quello che è riconosciuto come centro, almeno antico, si è sviluppata a partite dal fiume, verso le rive più asciutte, verso l’interno.
- La middle town di fatto gradualmente occidentalizzata a partire dal centro e fino ad arrivare al lago Kan Daw Gyi dove le strade si allargano, dove c’è spazio per un giardino zoologico, un parco e 3 fra i monumenti di maggiore interesse: Shwedagon Pagoda, Buddha sdraiato (Chaukhtatgyi Paya) e Buddha seduto (Ngahtatgyi Paya), distanti fra e centinaia di metri.
- Infine la upper town la cui zona nevralgica pare essere quella delle costruzioni sorte lungo le ricche rive del lago Inya dove appunto si trovano golf club, grattacieli e disgregati centri commerciali misti ad unità abitative medio grandi.
Il nostro hotel è nella parte più autentica e storica, nella downtown, nel labirinto organizzato di vicoli umidi che tagliano le e grosse arterie di scorrimento: Merchant Road, Maha Bandoola road, Anawrahta road. Le piccole vie sono numerate progressivamente così che orientarsi risulti davvero facile e girovagare senza metà più fruttuoso. A partire dalla Sule Pagoda ed arrivando non oltre la sedicesima strada oltre la quale si diradano i piccoli esercizi commerciali e l’interesse, percorrendo Maha Bandoola ed andando a destra su ogni vicolo per poi tornare indietro tramite il successivo, si assiste alla vita del quartiere, della classe “operaia” di questa chinatown e di fatto miserabile della città.
Qui c’è qualcosa a metà fra India e Vietnam: un umido sporco e così irrinunciabile che rapisce per odore e continuo stupore.
Le case inverosimilmente strette ed alte, sono asserragliate ai fianchi delle strade: servono da negozio al piano terra e tramite ripidissime e sudice scale offrono stanze da letto alle semplici famiglie. Microscopici balconi colorati da vestiti e piccoli drappi di tessuto non ben identificati, ossessivamente paiono chiudersi sopra il centro del vicolo come fossero vegetazione.
I muri piangono umidità fino a diventare verdi di muschio, neri di trasudo: piccole, insufficienti e male installate grondaie gettano acqua piovana, scarichi di cucina e condizionatori esattamente a metà marciapiede o peggio ancora nel mezzo del muro stesso. Il risultato è un intero quartiere sbiadito ed incomprensibile dal punto di vista urbanistico.
Calmissimi cani girano a decine senza nemmeno più porre attenzione a cose e persone: magri e feriti paiono avere la febbre da sempre, ma senza saperlo così che possano continuare ad accucciarsi dove vogliono, a mangiare non si sa né cosa né quando, così che possano continuare a barcollare.
In sottofondo centinaia di corvi gracchiano in modo diverso da quello che siamo abituati a sentire, fanno razzia di bucce e rifiuti vari, prendono di mira le minuscole bancarelle degli improvvisati mercati d’ogni vicolo.
Yangon, almeno in questa parte, è tipica del sud est asiatico, in qualche modo simile ad Hanoi ma del tutto senza motorini e del tutto più calma, più lenta.
Fra le pagode, silenziose e dorate la gente ci sorride ed accoglie seppure in qualche caso mostra malizia nell’aspettarsi una mancia dopo qualche spiegazione non richiesta ma risolutiva: ora ci mostrano qualcosa, ora spiegano una usanza, ora ci danno un libretto o ci spiegano che in base al giorno della settimana in cui si è nati ognuno di noi ha un numero fortunato ed un animale guida.
Per 5 volte rovesciamo l’acqua corrente raccolta con una ciotola di peltro sulla testa del Buddha: una per il Buddha, una per i genitori, una per il maestro, una per il Papa ed una per….non mi ricordo più!
Questo, ci viene spiegato, ci proteggerà da ogni male fisico e mentale (a parte lo scivolosissimo pavimento del complesso della Pagoda sul quale, dovendo camminando a piedi nudi, si rischia seriamente di farsi male.
Complessi di questo genere si visitano in genere camminando in senso orario, senza troppo rumore né atteggiamenti irrispettosi come pose goliardiche ecc che in effetti, per fortuna, non ho visto da nessuno dei pochi turisti.
Le facce dei birmani sono spesso sorridenti, a volte vergognose se indagate dal mio obiettivo in cerca come al solito di ritratti, di pieghe della pelle ed espressioni che rivelino e ricordino un posto, un uso, un costume.
Qui sul viso la gente spalma qualcosa di simile ad una creta con pennellate a volte casuali, a volte più ornamentali: pitturati d’oro i sorrisi sono più aggraziati ed i tratti ammorbiditi.
Si cammina e si mangia più o meno ovunque, a tutte le ore: basta avere occhio clinico per ottenere una cena gustosa a base di pesce grigliato, per poco meno di 7 euro a testa. Si deve saper scegliere però fra posti confusionari e non troppo puliti: la diciannovesima strada è una miniera di posti molto interessanti che a differenza delle strade poco prima e poco dopo sono più attraenti per turisti e non alla portata del birmano medio.
Il cambio della moneta è facile in aeroporto ed inesistente in città, almeno in questa parte: le cifre sono sempre alte ed i calcoli non abituali.
3000 kyat equivalgono più o meno ad 1,70€ ed il loro potere di acquisto non è basso: una corsa medio lunga in taxi (tantissimi e senza tassametri) oppure 2 caffè americani e parecchio altro da sgranocchiare.
Qui quasi tutti masticano noci di betel frammentate e messe dentro una foglia o due incollate da una sorta di calce: è una droga, seppure blanda, crea dipendenza, crea una grande salivazione e fa diventare i denti tutti rossi. La gente ci tira avanti fra vizio, resistenza alla fame e forse alla fatica. Fatto sta che la città è invasa fino a notte fonda da piccole bancarelle dove si preparano questi boli da masticare in continuo. La gente se ne vergogna ma non ne sa fare a meno e va sputando saliva rossa che poi macchia pavimenti e strada per giorni. Vorrei fotografare un sorriso deturpato da questo vizio ma ogni volta che sono li per fare click interviene la vergogna e serrano le labbra.
Shwedagon pagoda: fuori dalla downtown, senza dubbio l’attrazione più interessante della città. Un complesso costituito da una stupa altissima e piccole altre più basse, piccoli palazzi dai tetti ornati, centinaia di fedeli. Anche questa da visitare scalzi e dopo aver pagato un biglietto di ingresso, anche questa molto calma: impegna almeno un’ora o due e credo sia sul serio imperdibile. La guida (libro) consiglia di vederla al tramonto ma sinceramente non ci sono punti panoramici ed al netto di cerimonie delle quali però non si è letto nulla direi che basta un po’ di sole così che risaltino l’oro della stupa maggiore ed il bianco di alcune altre costruzioni. Da vedere, da fotografare e da ascoltare visto che le piccole campanelle sulla parte finale delle stupa risuonano dolci ad ogni timidissima corrente d’aria.
Buddha sdraiato (Chaukhtatgyi Paya) e Buddha seduto (Ngahtatgyi Paya), distanti fra loro poche centinaia di metri: da vedere ma senza grandissimi clamori né artistici né architettonici. Perché sono riportati con così tanta importanza?
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