Ago 28
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Così dopo un sonno riparatore dell’ultimo periodo di lavoro e della cena siciliana di ieri sera che mi fa sentire felice, grasso ed in colpa, ci siamo svegliati poco prima della sveglia, ma senza il fastidio che poi ne nasce quando succede e ti tocca andare a lavoro.
Il solito zelo dei parcheggiatori mi sveglia subito dopo aver ripreso sonno, ascoltando il rumore dell’acqua della doccia. “Per le 6.40 sarò lì, ok”
Va tutto liscio: Roma è così svuotata che pare un campo da basket dopo una sconfitta. Stavolta lo zaino pesa perfino meno perché invecchiando porto meno cose anche se sono certo di aver dimenticato qualcosa e di aver potato qualcos’altro di inutile che mi riprometterò di non portare la prossima volta: la maglia blu, maniche lunghe, dell’Honda non so nemmeno più se mi va bene e l’ultima volta l’ho indossata è stato in Australia 2 anni fa, più per stizza verso me stesso che per bisogno; era davanti l’Uluru. Penso di averla indossata in tutto 4 volte ma di averla portata in ogni viaggio.
Lasciamo il bagaglio al drop off e lì la scoperta: non so se per qualche prova che ho fatto quando l’app della compagnia aera funzionava male o chissà che altro, fatto sta che io adesso quando viaggio ho sempre un pasto hindu. Di suo la scelta non è preoccupante né malaccio ma insomma non è voluta e considerata la cucina indiana, soprattuto a colazione, il fatto può essere pericoloso a livello digestivo.
“La vita è più strana della merda”, dicevano in un film bellissimo a dispetto della frase troppa colorita.
Ho incontrato Luca, un mio ex compagno delle scuole elementari. Un abbraccio, un caffè e qualche chiacchiera più la promessa di una birra al ritorno a Roma. Che anni quelli lì: ci penserò per almeno un’ora ancora, gironzolando per l’aeroporto, aspettando il decollo.
Poi sul serio, arriva il pasto hindu e non è nemmeno male, almeno non forte e speziato come lo snack di un paio di ore dopo.
A Doha l’aeroporto è pulito ed efficiente come sempre e pare non cambiare mai: operosi mediorientali ai posti di rilievo, indiani ai posti meno prestigiosi, oro giallissimo in vendita in parecchi negozi e grossi marchi oggetto delle attenzioni di ricchi mediorientali e turisti in cerca di affari che nella realtà non esistono.
Le sculture di ferro che scimmiottano robot di moderni cartoni animati dal gusto un po’ andato e costosi food court fanno da sfondo a quei metri che i turisti di mezzo mondo percorrono su e giù aspettando il prossimo volo. Il nostro decolla fra 5 ore così che si possa visitare tutto, curiosare ogni negozio, come ogni volta che capitiamo qui.
In aeroporto, ovunque, è socialmente accettato essere vestiti con scarsa cura, mangiare cibo e bere alcolici anche fosse metà mattina. Il solito dubbio poi: perché ci fanno rifare il controllo sicurezza? Il dubbio è che possiamo aver comprato armi durante il volo?
Poi è solo sonno, un po di idee e la curiosità su Yangon, che ci aspetta piovosa.
Alla ripartenza altra sorpresa: il secondo volo è più che piccolo, tanto da sembrare un aereo figlio di quelli Qatar. Quindi avrò anche risolto la questione del pasto hindu ma adesso c’è da combattere con la delusione di altre 5 ore di volo senza i servizi di musica, film e videogame: il che mi fa pensare a quanto possa essere piccolo l’aeroporto di Yangon. Santo Netflix con un film scaricato rilevatosi alienante e lentissimo ma pur sempre da capire.
Abbiamo passato la linea del medioriente: beh lo si capisce anche dagli usi e costumi di certe gente che torna a casa ruttando durante i pasti in aereo oppure dando sfogo ad ogni batterio esistente in ambito podologia. Una orribile puzza di piedi imbruttisce le facce di molti dei passeggeri e confidiamo nell’odore di naftalina della coperta che la tipa accanto a noi si è portata da casa.
E’ il viaggio, comunque vada, e mi vengono in mente, non so perché, i panini col salame che mangiavo andando in auto da solo, di notte, verso le piste dei mondiali motocross: la puzza d’aglio invadeva l’abitacolo.
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