Attese
Ago 03
Loretta, Racconti Attese, massimo soldini, saluti, scena perfetta, stazione, temporale estivo No Comments
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Poi il cielo s’era rotto col fragore d’un tuono che se non fosse stato venerdì pomeriggio avrebbe fatto di certo un rumore diverso.
Il cielo aveva colato giù tutta la frustrazione che il vento lento e caldo gli aveva portato nei giorni prima.
Roma gli era sembrata disperata, svuotata, e s’era rifugiato sotto le tettoie fra i binari della stazione che poi lo si sapeva già, non riparavano un cazzo e la pioggia tiepida continuava a pizzicarlo sul viso come fosse fatta di spilli.
Il tabellone se ne stava li a decidere il destino di ognuno senza capire che quelle cifre per le persone avrebbero significato molto più che per lui che comunque va compreso perché non si riposa mai.
Ma voi ci avete mai fatto caso alle traiettorie che percorre la gente in trascinando la valigia? Certe volte aveva creduto che facessero quei giri tutti storti tanto per farsi vedere da lui, tanto per trasmettergli l’ansia del treno che parte e di loro affannati che con un filo di voce e scarsissima logica mormorano qualcosa tipo “aspettate”.
Allora col buio del temporale la stazione gli era sembrata una specie di set cinematografico zeppo di comparse espertissime. Lui c’era ma s’era sentito come il regista che aveva scritto una storia così saporita da non capire più se fosse lui presente nel mezzo della scena, se la guardasse da fuori, se fosse il protagonista.
Quando sentì che il rumore di fondo s’era abbassato l’unica immagine realmente a fuoco era quella: in bilico come fossero nella posa finale d’un numero di pattinaggio sul ghiaccio si guardavano con occhi piuttosto grandi come se aspettassero appunto che dall’esterno qualcuno scattasse la foto o lasciasse andare una pellicola su cui imprimere tutto, tutto a parte l’inquietudine.
Con le borse in mano avrebbero potuto dirsi tutto oppure niente e scelsero la seconda ipotesi aspettando forse che partisse la colonna sonora che sarebbe aumentata di volume col procedere dei secondi.
Lei aveva sorriso ed aperto ancora di più gli occhi, lui invece gli era sembrato sull’orlo di dire qualcosa, qualcosa che poi aveva lasciato sbattere contro le labbra socchiuse da un sorriso di risposta, di quelli che significano qualcosa tipo “ci siamo capiti, lo so, o almeno spero”.
Che fosse sulla porta di un ascensore, al binario, correndo dietro un’auto in corsa fosse anche dopo saluti già scambiati, le scene dei saluti erano le sue preferite proprio per quel gusto dolce amaro.
Ecco perché tutto gli si era fermato attorno mentre loro si guardavano e poi sorridevano: lui non aveva ancora capito se avrebbe preferito che si fossero detti qualcosa ancora, determinante o meno, o se invece avrebbe preferito che avessero continuato a guardarsi e capirsi. Lasciò che fosse, gli parve la cosa migliore.
La scena s’era chiusa con qualche parola di lui ed una risposta di lei: nessuna delle due frasi era entrata in audio, vuoi perché lui, il regista per capirci, era troppo distante dalla scena, vuoi perché quel dubbio, quel non detto e quelle frasi non udite, quelle labbra di lei che staccandosi appena sembravano fare un sottile rumore, erano di una sfacciata eleganza che la scena nel suo insieme avrebbe lasciato negli spettatori una sensazione di sazietà che allo stesso tempo li avrebbe anche spinti a cercarne il seguito del film se mai fosse stato realizzato.
Così come lui lasciò che lei andasse rimandando parole, sorrisi e racconti, il nostro osservatore, il regista, aveva lasciato che le porte si chiudessero, che la scena là fuori riaccelerasse come se appunto nessuno si fosse reso conto di quello che era successo, come se quella storia, quegli attimi, seppure così grandi, avessero significato così poco per il sistema più generale, per la stazione, per la città che intanto si godeva il temporale.
Non c’era nulla da cambiare, nessun motivo per intervenire, tutto era rimandabile perché lo stato d’animo era a a metà fra sicurezza e qualche dubbio. Lei sarebbe tornata, la scena si sarebbe ripetuta simile sotto ad un portone, al tavolo di un bar oppure sulle scale di un treno.
Lui, e non so dirvi più se fosse il regista od il protagonista, se andò via mentre in testa continuavano a girargli le parole di una canzone.
“Programmiamo le ferie per guardarci negli occhi,
le tue frasi gentili,
lo stipendio da niente dimezzato dai vini”
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