Piove sabbia

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Khe Sanh Danger (Robert Capa)

Stamattina una pioggia calda insabbia l’aria e pian piano confonde fino a seppelirlo un risveglio stentato. Queste gocce che sembrano di sabbia sporca, gonfie di un afa che promette il suo arrivo, mi fanno venire in mente il Vietnam e quella pazienza dei bufali sotto la pioggia, quella fanghiglia figlia delle mattine operose dei contadini, quelle vecchie foto di guerra con i soldati stanchi e scavati in viso, quelle scene dei film mediati dalle righe di qualche inviato come Herr.

Sto ancora leggendo Dispacci: è un libro che non voglio finire e che porto appresso da tempo, che vado centellinando, appuntando, gustando. È stato alla base delle scene dei più belli e completi film di guerra e leggendolo si riconoscono i visi degli attori, si ricollegano aneddoti, dialoghi, fatti storici da andare a ripassare. Avevo avuto l’idea di crearne una sorta di costola privata che potesse fungere da riassunto, che integrasse i fatti e le date principali, alcuni riferimenti del mio ultimo viaggio, ma il lavoro mi ha divorato l’umore ed un po di carattere così che sul treno sonnecchio aspettando che torni la connessione internet utile a qualche email dal testo troppo mediato per via di un ruolo lavorativo, un ruolo che allo stesso tempo non avrei voluto ma che rispetto e benedico.

Mi sento più furbo e forte anche se avrei voglia di rifugiarmi a casa; sono vivo e più ricco: ho seguito, finanziandoli, 3 progetti su kickstarter, ho un nuovo volo da prendere, una città da condividere ed imparare e soprattutto ho spazzato via, finalmente, quell’orrenda sensazione che avevo la notte, rientrando a casa, guidando le ultime curve della strada stretta, chiedendomi se quello sarebbe stato il mio quartiere, se avessi dovuto cambiare ancora abitudini, se quella sarebbe stata la mia casa come speravo, se avrei dovuto impacchettare, organizzare. Ora, e non ho voglia di scriverne nei dettagli per una forma di meravigliosa riservatezza, so che starò li.

Forse il lavoro e la morsa stretta di quelle povere prepotenze quotidiane da sopportare, vanno incasellati come un viatico per le cose migliori, private, un costoso biglietto, un boccone un po’ amaro, un controllo lungo, scorretto e puntiglioso da sopportare, uno di quei controlli dei supponenti ufficiali dell’est Europa che sarebbe bello poter rincontrare oggi proprio per vederli comportarsi in maniera più mite, proprio per testimoniare a loro stessi quanto fosse povero ma comodo sfruttare quella posizione.

Si, ne sono certo, è così, e me ne rendo conto mentre dal finestrino mi investe il primo raggio di sole dopo la pioggia stanca di stamattina, mentre due ragazzi davanti a me utilizzano un adattatore per collegare due paia di cuffie allo stesso apparecchio, alla stessa canzone da ascoltare ad occhi chiusi. 

Ora si tengono la mano ed io sto meglio, come Nanni Moretti in Bianca quando sentiva di aver evitato che una coppia litigasse.

C’era una carta del Vietnam sul muro del mio appartamento di Saigon e certe notti che tornavo tardi in città mi buttavo sul letto e stavo a guardarla, così stanco da non riuscire a fare niente di più che togliermi gli stivali. Quella carte era una meraviglia, specialmente adesso che non corrispondeva più alla realtà. Intanto, era molto vecchia. L’aveva lasciata lì anni prima un altro inquilino, probabilmente un francese, dato che era stata fatta a Parigi. Anni e anni di caldo umido a Saigon avevano deformato la carta nella cornice, e avevano lasciato una patina sui paesi che raffigurava. Il Vietnam era suddiviso negli antichi territori di Tonchino, Annan e Cocincina, e a ovest, oltre il Laos e la Cambogia, stava il Siam, un regno. È vecchia, dicevo a chi veniva a trovarmi, è una carta molto, molto vecchia.

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