Tornei, sabati. 

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Sono le 4.30, il parcheggio è vuoto ed una sigaretta, fumata a bocca asciutta, mi penzola dalle labbra. 

Birra e gelato. Poi birra. I panini salsiccia e peroni, i gelati ad 1 euro per attrarre persone che poi non li comprano davvero, un basket proletario semplice e disperato.

La palestra piena di gente, il vociare di chi è là fuori, i gridolini di chi non ha mai visto nemmeno un canestro, figuriamoci tutte queste partite in una sola notte.

Chi non ci sta a perdere, qualche gomitata, i non arbitri, le partite vere che mi mancano e che appena parte la musica del riscaldamento mi fanno sentire bene.

Poi gli uccelli già svegli sugli alberi della mia via, rientrando a casa, un ricordo tagliente, la faccia impassibile da pesce, riflessa nello retrovisore centrale. Gian dorme, almeno a quest’ora. e mi sento più svuotato che stanco perché non posso chiamarlo per citare chissà che film.

La sveglia suona tardi, il caldo, la spesa da fare, un pasto di plastica come fossi un giapponese di Tokyo in una casa disadorna. Abbatto i costi, li valuto al kg, poi mi rammarico della conversazione che la vecchina mi impone quando vado a pagarle l’affitto del box. Io non vorrei parlare con nessuno e quella circostanza la soffro, lo so sempre, ogni volta che  salgo le scale. “Signora, sono Massimo“. E poi 5 minuti di frasi fatte, domande retoriche e luoghi comuni. Ho deciso che le pagherò due mesi per volta, così, per diluire:  magari non vedendoci per un po troveremo anche qualcosa da dirci. Il figlio omosessuale represso, a 24 anni, andò ad insegnare a Sorrento e ci rimase 12 anni. Lei me lo dice sempre e poi mi racconta dei viaggi che ha fatto e dei problemi che lei non sa perché ma qualche volta lui ha avuto. Lei dice che il figlio lega poco con tutti e che non ha amici, che ogni tanto sta giù di corda ma che forse è per via del lavoro. Io so un sacco di cose sul figlio, come di quella volta che lei era via e lo studente biondo era a fare ripetizioni da lui. “Ti fermi a pranzo con noi”? “No meglio di no”. Poi ogni volta esco e trovo solo la desolazione della strada, semivuota: nessuna ragione per cui non dovrebbe passare un arrotino con la sua cantilena sgangherata.

Poi le gomme usate, accatastate giù da Carlo, ordinate che paiono un’opera d’arte. Il caldo che schiaccia la testa, i pochi metri camminati per immergermi sotto la metro, direzione camiceria. Dicono che non le trovano, le camicie, ma succede ogni volta e non mi preoccupo più anche se poi mi da sui nervi. C’è chi legge e ci sono due ragazzetti che si rollano una sigaretta mentre il sabato gli pare perfetto.

Poi ci sono io che scrivo qui, come ai vecchi tempi, passando il tempo sui sedili del metrò, cercando le facce e le storie, fra le fermate scelte a caso, fra quelle in cui non ero veramente mai sceso per un motivo che non fosse questo. 

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