Il bar, le grandi speranze, il tennis, il campo da basket, i pensieri nel tunnel e la scaramanzia di un Coach

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campo vuoto morena

So da me che il titolo è un tourbillon che apparentemente pare senza senso..

Ludovico Einaudi non c’entra nulla, ma è il sottofondo che ho scelto mentre picchio sui tasti; e mi calma e poi mi porta su e mi ricorda e mi sostiene: dolce, amaro, poi dolciastro e consapevole di un bello che nelle parole non riesce ad entrare.

Così’ ieri sono tornato sul campo da basket, dopo un paio di mesi, per l’inizio della stagione. Allenamenti da programmare, persone da incontrare, vecchi e nuovi progetti, un po’ di mercato ed accordi da raggiungere, “forte” della nuova tessera strappata con fatica.
Ci sono giornate nelle quali non sento più molto mio quel campo, il tunnel degli spogliatoi dal quale tante volte sono uscito dietro ai miei giocatori e nel quale sono rientrato mascherando emozioni dopo una vittoria così come dopo una sconfitta.

Mentre il pubblico fa rumore li porto dentro. Basta un gesto, mentre si scaldano e tirano, mentre pare che non stiano a guardare e sentire nessuno, mentre gli altoparlanti fanno un rumore di musica che poi a nessuno piace e che nessuno ascolta.
L’indice fuori, il braccio che ruota attorno al gomito, come a dire “tutti“,  il pollice fuori dal pugno chiuso, indica dietro le mie spalle. Qualcuno si attarda, qualcuno va dentro già pensando un po’ ansioso a quando la rumba, là sul campo, comincerà sul serio.
Io cammino dietro, lento. Nei pochi passi del piccolo tunnel ascolto il rumore delle scarpe, faccio suonare la piccola grata sulla finestra della segreteria.
E’ lì che raccolgo le idee, che abbozzo un discorso che farà leva sulle mie e sulle loro emozioni: solo lì, mai prima, tanto meno nei giorni prima. Cosa c’è da preparare o fingere? Sarò emozionato, ogni volta: avrò speranze e paure, cercherò di essere adeguato, di aiutarli, di proteggerli. Non devo prepararmi, lo farei con sincerità ogni giorno. Così è nel piccolo e corto tunnel che raccolgo le parole.
Poi li vedo seduti, ognuno al suo solito posto. In silenzio, attenti, come se stessimo per rivelare loro una grande verità. Quando il discorso funziona lo vedo perché qualcuno cambia espressione, perché a qualcuno monta la rabbia, ad alcuni la paura, perché qualcuno guarda in basso, perché qualcuno cerca conferma negli sgorbi sulla lavagnetta.
Mi piacerebbe avere un video, per ogni discorso, ma poi perderemmo quella naturalezza e così affido alle nostre stesse memorie tutto l’archivio.

Quando la porta si apre è come un risalire da una costosa apnea: aria, rumore, voci della gente che aspetta. Una bolla che si rompe e tutto entra.
Escono, qualcuno si carica “dando il 5” ai compagni, a Stefano fermo là sulla porta, oppure sbattendo il palmo delle mani sulla porta di ferro che facendo rumore fa da tamburo, un tamburo che annuncia una piccola meravigliosa battaglia.
Io esco per ultimo e nel ritorno del piccolo tunnel penso sempre a mio padre. Lo saluto, ed  a modo mio ci diciamo 2 parole. Allora comincia la scaramanzia, il raccoglimento privato.
Taglio il campo, camminando: il segno della croce, del buon cristiano, anche se poi non lo sono davvero, anche se poi qualche bestemmia scivolerà, con tutto il suo pentimento conseguente. Qualcuno mi ha chiesto se facendolo io chieda una vittoria. No.
Sarebbe codardo chiederlo soprattutto per gli scivoloni della rabbia e le male parole. No.. Chiedo che nessuno dei miei si faccia male, solo questo.
Ho un portafortuna che nessuno credo abbia mai notato. Riposa nella mia tasca destra della tuta da gara.
Un piccolo sasso, semplice e duro, resistente e stondato: ha un senso speciale per me, per la sua forma, per il suo materiale, perché “lui sa”, perché viene da lontano, perché ha esperienza, perché non ha più spigoli, perché ha visto tanta acqua passare. Lo stringo nel palmo, poi apro la mano, ci butto gli occhi e lo rimetto al suo posto.
Un ultimo rito: busso le mie nocche sulla mia lavagnetta. Sveglio gli dei della pallacanestro.
Nei templi Giainisti dell’india, entrando, si suona una campana per svegliare le divinità e chiedere loro di intervenire. E’ lì che l’ho imparato, viaggiando.

Così arrivo al dunque e spiego il titolo. Il campo da basket, per chi lo vive davvero, è qualcosa, qualcuno, un posto, un rifugio. Questo mi fa venire un mente un libro: Il bar delle grandi speranze di J. R. Moehringer. C’ un passo, molto intenso, di quel libro, e lo riporto qui sotto. Parla di un posto che per quanto mi riguarda potrebbe essere il campo da basket.
Dello stesso autore, in questi giorni, sto leggendo Open, la biografia del famoso tennista André Agassi. Non amo il tennis, per nulla. E nemmeno Agassi lo ama. Già, chi lo avrebbe mai detto ?
La storia è sorprendente e bella. Dura e poetica, ovviamente ben scritta (L’autore è pur sempre un premio Pulitzer e seppure usasse ghost writers, ne userebbe di grandi !).
Un libro che consiglio, una storia di vita e di sport.

Ci andavamo per ogni nostro bisogno.
Quando avevamo sete, naturalmente, e fame, e quando eravamo stanchi morti.
Ci andavamo se eravamo felici, per festeggiare, e quand’eravamo tristi per tenere il broncio.
Ci andavamo dopo i matrimoni e i funerali, a prendere qualcosa per calmarci i nervi, e appena prima per farci coraggio.
Ci andavamo quando non sapevamo di cosa avevamo bisogno, nella speranza che qualcuno ce lo dicesse.
Ci andavamo in cerca di amore o di sesso o di guai, o di qualcuno che era sparito, perchè prima o poi capitava lì.
Ci andavamo sopratutto quando avevamo bisogno di essere ritrovati
” J. R Moeringher ”

 

 

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