298 me
Lug 18
Racconti disastro aereo, Malaysia Airlines, malesia, massimo soldini, missile, ucraina No Comments
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Un giorno orribile per ogni viaggiatore, prima ancora per ogni persona.
Un aereo della Malaysia Airlines è stato abbattuto da un missile ed è precipitato in Ucraina : ieri, 17/07/2014, un giorno sfortunato per me, un giorno del quale sto ancora metabolizzando i mille aspetti e gli eventi, un giorno ultimo per 298 persone vittime inconsapevoli di una guerra che poi, come tutte, per definizione, è assurda e che assume i contorni del surreale, e dell’ amaro beffardo ripensando a quelle famiglie dirette in Malesia.
Da Amsterdam a Kuala Lumpur, 298 persone fra equipaggio e passeggeri: ci sono stato anni fa, proprio con lo stesso aereo, proprio sulla stessa rotta, ma il vero punto non è questo. Pare non ci fossero italiani a bordo e così il clamore dei nostri ciechi giornalisti è smorzato dalle notizie della politica interna.
Io metto via le mie bozze sulle quali stavo pasticciando, le cose vere, quelle idealizzate e quelle inventate, quelle divertenti oppure meno.
In questi 10 minuti che spendo per queste righe vorrei saper condensare un po tutto quello che mi passa dentro ma come al solito so già di aver perso in partenza. Su internet circolano foto più o meno crude dei rottami e dei corpi di quelle persone.
Colpiti da un missile, senza motivo, per errore, per orrore, per la follia della guerra. E così le guide turistiche, i bagagli, i piccoli oggetti, tutte quelle valigie caricate in stiva, i bagagli con gli oggetti pronto uso, i libri, fazzoletti di carta, quelle merendine da sgranocchiare mentre sei lì che leggi, scrivi oppure semplicemente guardi fuori dal finestrino: tutto sparso in terra, nella radura lassù in Ucraina.
Ho guardato quelle felpe bruciate e strappate, le ho pensate indossate, ho guardato nelle foto le coperte sottili che le hostess consegnano per proteggerti dall’aria condizionata, dal freddo mentre dormi, quelle coperte sottili che ti fanno sentire meglio, col tepore sulla pelle, sulla pancia, mentre chiudi gli occhi per riposare e già sogni un ritorno, un nuovo viaggio.
Mi accecano un paio di foto, non del tutto crude ma brutali e spietate di certo. Condensano quegli attimi, il fracasso, lo stupore, il dolore e lo sgomento, l’inspiegabilità e la paura vera che posso solo paragonare ad altre che ho vissuto e creduto definitive come invece questa è stata.
Forse il senso spietato sta nell’inconsapevolezza, nel morire così, senza aver capito, avuto tempo di dire o fare, compiendo i gesti più ordinari della vita, magari familiare. E penso a chi raggiungeva un amore, a chi viaggiava con la famiglia, a chi teneva la mano del compagno o della compagna, sonnecchiando fra i sedili non troppo comodi.
E mi fermo a guardare i pezzi di carta lì nelle foto, a pensare ai mille appunti seri o meno che ho scritto su tutti i miei libri, su tutte le guide inzeppate di post-it come segnalibro, con i riferimenti di ristoranti, musei e tutti questi posti che ho pensato potessero in qualche modo rendere speciale il mio viaggio.
E’ tutto lì, sulla radura, tutto spezzato, senza il tempo di dire qualcosa, anche se poi non si sarebbe saputo scegliere cosa; tutto senza il tempo di capire, e qualcuno so già starà penando che forse è meglio: ma io non ne sono convinto e rimango agganciato all’idea spigolosa di un saluto, di un addio, delle ultime lettere, delle ultime parole, al male che ti fanno le parole non dette.
“Mai colpi in canna”, uno dei miei credo. E poi qualcuno non riesci a spararlo, come me ieri, e ti svegli alle 5 di mattina pensando che avresti voluto e potuto dire proprio quello che ora vorresti dire. Proprio come me, stamattina.
E penso a quelle famiglie, alle loro vite più disparate, del tutto simili ad ognuna delle nostre, adesso strappate, sparse. Le osservo nelle foto come osservo le foto nei cimiteri, fantasticando sulle loro vite, analizzando dettagli come bottoni, espressioni, oggetti, in questo caso i bagagli.
Vorrei saper scrivere davvero, riassumere, condensare, catalizzare: oggi meno che mai forse ne sono capace. Mi perdo fra le righe e perdo la vista su un paio di foto, quelle qui sopra, che purtroppo o per fortuna riassumono meglio di me. Non c’è soluzione alla disperazione di quelle famiglie, di chi è sopravvissuto non essendo su quel volo, e ci sono anche foto dell’angoscia di parenti, amici, ai due aeroporti.
La disperazione vera credo sia quella di sopravvivere al distacco da un bene assoluto: penso a chi a casa li aspettava, a chi aspettava un sms, una chiamata, magari via Skype: penso a chi non sentirà mai più quella voce che adora, che adora ancora e che non confinerà mai parlandone al tempo passato. Penso a questo, a chi attendeva di sentire quella voce per lui/lei speciale, la voce che capace di dare, tranquillizzare, rendere migliore. Penso alla paura di perdersi, per le pieghe della vita di ogni giorno, a quella paura ora brutale realtà.
E mi rivedo in mille dinamiche di quel volo, dei miei voli, di ogni mio viaggio.
Non è questo poi il punto, non che potessi essere io, che io abbia preso quel volo anni fa.
Il punto sta nel senso spietato di un addio, della fretta degli eventi, della metabolizzazione di questi stessi: non poter dire, fare.
Disarmati, perdersi, spezzarsi, non poter risolvere, non potersi riavere.
E guardo ancora quelle guide, i bagagli squarciati, i corpi riversi, i lucchetti appesi alle zip ormai inutili degli zaini.
298 me sono morti ieri: non ne conoscevo nessuno eppure sento strappato qualcosa dentro, anche per via della mia giornata vissuta.
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