La foto padre e la foto figlio

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Questa, è quella foto.
La foto di mio padre della quale spesso ho parlato qui sul blog, l’originale dalla quale feci plastificare quella che portai con me nel viaggio a Caponord, il mio portafortuna per i viaggi in moto, stretta fra i documenti, custodita.

Prima di ogni partenza importante, ad ogni ritorno: io la rimiro.

E così quella foto, la copia plastificata, in realtà, è vera, reale ed importante almeno quanto l’originale. E’ come se ad oggi fossero due differenti originali. La differenza sta solo nel messaggio sul retro, e no, non è poco.
La foto padre, che conserva mia madre, gelosamente,  e la foto figlio, che conservo io, più gelosamente, forse.

Una foto di anni fa, sbiadita e scattata di fretta, spedita a casa, al tempo, con un messaggio sul retro, gesto in qualche maniera tenero, “di pancia”, di mio padre.
Un gesto di familiare di affetto di un ragazzo che ho conosciuto per i suoi stessi racconti, anni dopo. E mi interrogo sul tipo lì sul retro, poggiato al fuoristrada  sullo sfondo, su qui giorni di mio padre ragazzo, sulle sue emozioni, paragonate alle mie, nei mesi del mio servizio di leva.
Mi chiedo cosa facesse, con chi, cosa pensasse o temesse.
Sono certo, come me, stesse bene lì: dai suoi racconti emozionati traspariva sempre un ottimo ricordo di posti e persone, esperienze, giri in moto
Quello per lui fu un periodo casuale: per un errore di documenti fu costretto al servizio di leva nonostante fosse il quarto figlio maschio (al tempo vigeva questa regola) . Ancora una volta il caso ha regalato risvolti meravigliosi. Ancora una volta, il caso per lui, il caso per me: come fu per trovare l’attuale lavoro e per tante altre storie, importanti da star male, raccontate qui oppure no.

Amicizie conservate, nostalgie dolcissime, esperienze da ritrovare nella vita che sarebbe poi venuta. Il servizio di leva di mio padre non è poi così distante dal mio anche se io, per un caso avverso, stavolta, finì per non guidare la moto che ad un certo punto avevano deciso di affidarmi.

Moto che poi, per fortuna, ho guidato tanto e guido ancora, che guiderò, se la vita non m’ingannerà ancora, se le finanze reggeranno. Tanti km, spero.

Lui e quella  giacca di pelle, il casco, la “somiglianza” con il film “il vigile”, di Alberto Sordi. Nel viso una soddisfazione, per essere bello, per piacersi, per sentirsi davvero lui. E’ questo che ci vedo e che ancora vivo, per me, preparandomi, vestendomi di pelle dura per i miei giri del fine settimana. Quella voglia di andare e fare, viaggiare, col vento che frusciando ti mescola i pensieri.
Così mio padre è ancora quello, come io sono ancora questo anche se lui ha un profilo forse più chiaro del mio, soprattutto nei ricordi della gente,
negli aneddoti che ogni volta finiscono per meravigliarmi come quando da bambino, con gli occhi divaricati dallo stupore, ascoltavo le grandi favole.

Le sue mani, quella posa nella quale, spesso, inconsapevolmente mi ritrovo o forse, diciamola tutta, spero di ritrovarmi più simile che mai. Per assomigliargli ed essere migliore. Le sue mani, indurite dal lavoro, grosse e nodose, ruvide: eppure ricordo qualche carezza: poche, per colpa di entrambi, ne sono certo. Densa, ognuna, viva: le sento ancora.

Le sento, così come sento quella voce un po’ roca, fatta di poche e decise parole, proverbi e detti romaneschi, battute pungenti, rimproveri taglienti.

E quella moto? E’ una Moto Guzzi Alce V, particolare per il doppio manubrio: uno per pilota, uno per il passeggero. Una moto che ho cercato e che avevo trovato,che volevo comperare anche se non sarebbe stata esattamente la sua ma solo una simile. Ah, se ci avessi pensato prima, che regalo gli avrei fatto !
Forse la comprerò, chissà dove, chissà quando, o forse no, ormai che senso avrebbe?

Il senso più saporito, capace ancora di stordirmi, sta in quella foto, in quella che ho sempre avuto con me, per riuscire a tornare, con la fortuna che porta: per riuscire  a tornare dai viaggi più importanti, compreso quello della vita.

Mi colpisce ancora quel suo viso consapevole e soddisfatto, fresco di età, con tanta strada davanti: la premura del suo scrivere a casa, dello sforzarsi ad un sentimentalismo non del tutto suo, od almeno non palesato. Mi colpisce quel “cedere la sua moto”, così come ha scritto, alla sua famiglia a chi per lui era,è, su tutto e tutti, più importante.

Mio padre era un Gigante.
L’uomo che consegna i surgelati, lì nella nostra casa in campagna, un po’ lontana da tutto, ha pianto.
Questo aneddoto è la misura di quanto mio padre fosse, per tutti, “estranei” compresi, passanti, conoscenti, persone incontrate, colleghi, amici.

L’uomo dei surgelati, quella mattina, quando io e mia madre aprimmo il cancello e ci vide tornati a casa dopo mesi, chiese di mio padre.
“…e Sandro?”
“E’ morto, era la notte dell’11 Giugno”
Quel pianto a dirotto mi riconciliò in qualche modo con la vita, mi diede ancora di più l’esatta misura della sua capacità di lasciare alle persone, anche con poche parole, quasi nessuna carezza.
Quel pianto a dirotto dell’uomo della consegna surgelati: anche quello riesco a vederci in questa “nostra foto”.

Ecco perché. Ecco perché mio padre era un Gigante.

P.S.
Ho una mia foto, vicino a quel modello di moto, ad una mostra di moto d’epoca di Milano. Una mia foto, imitando la sua stessa posa. E ne ho un’altra, della sola moto, scattata quest’anno alla fiera di Roma, nei giorni del Motodays: ma nessuna è come la foto padre e la foto figlio

 

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