Caleidoscopio

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kaleidoscope

S’era sentito come quando aveva guardato dentro al caleidoscopio: tessere che salivano, scendevano e risalivano senza riuscire a collimare fra di loro. Un puzzle impossibile da ricomporre, un quadro di vetro, frantumato regolarmente, con precisione chirurgica.

Per ogni tessera un ricordo, di suo colorato e luminoso, ma nessuno, di fianco all’altro, andava d’accordo.
Un sospiro saporito di tabacco bruciato, ancora chilometri da guidare lento, evitando il centro di Roma, già vuota a metà settimana, con le strade umide del fresco della prima notte.  I semafori, lampeggiando, strizzavano l’occhio.

Roma era bellissima e pareva fatta solo di posti che raccontavano della sua vita, di ognuna delle piccole tessere del caleidoscopio, dei quartieri e dei ricordi, dei progetti spezzati, di progetti abbandonati, di speranze tradite.

Una manata di gas per allontanarsi col borbottio regolare del motore dentro le orecchie, tanto sonno in testa, nessun sogno che valesse la pensa di sognare. In quei giorni lo vedevo girare a vuoto, lento come uno zombi, assonnato tutto il giorno, finché poi non era il momento di riposare: era lì che invee cominciava rivivere, finendo per accumulare stanchezza, sonno e chilogrammi di peso perso.

Mi sarebbe piaciuto aiutarlo e non solo rispondere ai suoi messaggi, od alle chiamate. Avrei dovuto dire meno banalità, meno frasi d’occasione, forse anche solo rimanere in silenzio ed ascoltarlo. Io non sono stato capace di aiutarmi, figurarsi aiutare. Lui comunicava ma stavolta s’era impigliato non riuscendo a spiegare  o forse lo aveva fatto troppo bene, sbattendo contro muri di logica e contraddizioni: forse stava male proprio per la consapevolezza del fatto che non ci fosse soluzione. Ed era questo che forse si sarebbe voluto sentir dire invece che la storia del tempo che medica tutto.

Quella telefonata, di notte, mi ha sorpreso con le cuffie nelle orecchie, preparando il lavoro per la mattina.

Quando sono arrivato ho visto poche cose e fra quelle che mi hanno colpito ho chiarissima in testa una specie di foto che ho scattato al primo sguardo. Un piccolo fiore di legno che teneva sempre in tasca. “Vedi? Questo qui non molla mai, non si secca mai, puoi non dargli acqua, lui resiste”

Stamattina ho ripensato a quel fiore, a quella sera che me lo aveva descritto. Mi pare di vederlo nel palmo della sua mano ombrata di grasso, appena finito di sistemare la moto. Aveva aspirato come con fatica l’aria: “…oh, dovremmo essere come lui”.

Dall’elenco delle chiamate sono spuntato fuori come un riferimento chiaro e credo d’esserlo stato, per quel che potesse servire prima e dopo. Hanno chiamato me. Sono andato ed ho “fatto”. Senza piangere. Solo rendendomi conto, solo dovendolo ed anche volendolo fare.
Avrei voluto chiamare, spiegare quello che mi aveva detto, ma ho avuto paura, come di intromettermi. Avrei gridato ma ho pensato che chiunque sapesse perfettamente, per conto suo, quel che doveva e voleva, che ognuno di noi sarebbe stato a suo modo consapevole e che avrebbe ricordato, chi con dolcezza, chi con rabbia, ogni suo momento con lui.
Ma avrei voluto chiamare, dire, avvertire, forse confrontarmi sul bene, forse con qualcuno mi sarei voluto arrabbiare davvero.

Stamattina, alla festa al contrario, c’era un sacco di gente: spero ci fosse tutta quella che voleva esserci e che in qualche modo ci fosse anche chi poi, alla fine, ha scelto di non esserci fisicamente, perché non se l’è davvero sentita.
Mi è sembrato di conoscere un po’ tutti, ripensando alla tempesta della sue parole, bevendo birra, raccontandomi. E mi pareva lampante che ognuno avesse la sua storia, il suo viso ben delineato. Avrei voluto parlare con ognuno, verificare se i ricordi dei suoi racconti stessero collimando davvero con la mia idea di corrispondenza a questo oppure a quel viso che di fatto incontravo lì per la prima volta.
Forse ognuno di noi stava salutando una persona diversa, una delle sfumature che aveva saputo dare ad ognuno, nel bene e nel male, a questo oppure a quello. Era come se ognuno di noi ne stesse salutando uno diverso. Eppure lui, era sempre uguale, per tutti.

Un grosso silenzio, da far fischiare le orecchie, come quando rientri a casa e la città è già spenta, come quanto stai per andare a letto e sei lì solo che ripensi alla giornata.

Adesso sono a casa, ancora una volta con le cuffie nelle orecchie. E sento il fischio di quel silenzio. Sorrido, lacrimo un po e mi sento più confuso.
Ho stappato una birra poco fa e nel brivido un po’ barbaro del primo sorso mi sono chiesto se avesse avuto paura, se avesse sentito freddo, se si fosse sentito solo. Sono certo abbia capito tutto, ma poi non so perché ne sono convinto e non so se sperarlo oppure meno.

Lui non c’è e mi farà effetto non sapere come sta, non chiamarlo per dirgli “niente” oppure “qualcosa”, non vederlo piegato in due da stanchezza sonno e trip mentali lì sulla sedia scomoda del bar a Ponte Milvio.
Io non saprò come sta, non sentirò la sua voce: lui non c’è ed è un pugno nello stomaco, un colpo a cui far fronte, difficile da accettare. Posso solo conviverci.

Un’orribile pausa lunga “infinito” : non sono stato capace di aiutare a riordinare le sue cose, spostare un solo oggetto a parte quelli che erano sparsi in terra quella notte stessa: sentivo dentro un grosso senso di spreco, come se la strada gli avesse rubato, disordinato quello che aveva con se lì in quel momento.
E pensavo alla sua camera: era uscito e rientrato di lì un paio di volte in vista sua. L’ultima volta fu con me: pioveva quella mattina e gli avevo dato una mano con le valigie: ora è nella mia testa come un fermo immagine spietato e se chiudo gli occhi lo vedo sistemare, riorganizzare, dire di non farcela, innervosirsi.

E vorrei sapere voi, dietro quel viso che credo ormai di conoscere , dietro quel carattere che ho capito per le sue parole, dai suoi racconti, come fate, come farete domattina, ogni mattina ?

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