Maya, l’illusione.

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indian sadu

Maya, uno dei nomi della dea Lakshmi, sposa di Visnu, dea simbolo di fortuna, bellezza, fertilità.

Maya è il concetto induista di illusione, nei Veda indicato invece in origine come il potere, la possibilità da cui ha origine il mondo materiale.
Oggetti, persone, stati d’animo sono una rappresentazione illusoria dell’idea, dell’originale verità, possibilità.
Un mattone di argilla non è l’argilla, ne tutto quello che con questa puoi realizzare ne tutta la storia o l’origine dell’argilla. E’ una rappresentazione seppur comune, ma limitata, illusoria.

Nella vita quindi siamo dietro un velo illusorio che ci divide dalla verità permettendoci di percepire, vivere , solo in maniera alterata, illusoria rispetto alla verità assoluta, alla liberazione dell’anima e dal ciclo, secondo gli induisti, delle reincarnazioni (Samsara)

L’india, le illusioni, e la verità assoluta; l’Europa, il piano pratico e quello idealizzato.

Funziona “così”, anche qui.

Quello è il paese dell’irreale, del piano magico. L’india è illusione, è il distacco, la vita vissuta con indifferenza, appunto perché vissuta con la consapevolezza che quello che chiamiamo realtà è  illusione e che fa da sbarramento alla verità che ci sarà dopo, al raggiungimento del moksha (liberazione spirituale).
L’illusione, così come la stessa India tutta, sta negli incredibili trucchi dei fachiri così come nelle giornate afose e polverose di spostamento, nei percorsi tutti buche, nei suoni ossessivi dei clacson, nello sfarzo decadente dei palazzi su al nord, nei templi del sud, muffiti ed unti di olio sacro oppure verdastri, scolati di acqua sacra e stagnante. L’illusione sta tutta nella gente seduta ad aspettare in strada, negli storpi alla stazione, nei moncherini purulenti dei lebbrosi mendicanti.

Questo invece è il paese, la cultura, dove le  proiezioni e le supposizioni, in relazione al piano pratico, a quel che accade, differiscono finendo per ammalare l’anima. Spesso la differenza scava un solco così profondo che c’è un rifiuto nell’interpretazione dei fatti, dei segnali, di quello che accade. Ed è lì che conosciamo la speranza ed a volte la speranza e le relative aspettative tradite: la frustrazione.

Siamo arretrati quindi: perché rincorriamo il ragionamento senza aspettative, al di là dei desideri, ma basato invece su quel che accade, e quel che accade è comunque Maya, illusione.
Le aspettative tradite, il mancato incontro fra quel che vorremmo e quello che accade ci porta a star male, a rifiutare quella che è la situazione vissuta che, per quanto detto però, è comunque illusoria, irreale perché sfocata da quel filtro che in India ci spiegano è la vita stessa: è il distacco e l’abbandono indiano che ci mancano e che da qui, no, non raggiungeremo mai, purtroppo o per fortuna.

La frustrazione la fuggiremmo con il distacco, con la liberazione dai desideri: ma senza quelli saremmo motori senza benzina, incapaci di agire perché senza motivazione, senza essere ancorati al desiderio ed all’aspettativa dell’effetto di un’azione mirata al raggiungimento di questo.

Siamo immobili allora.

Immobili come davanti ai trucchi dei fachiri, quando il sole che vedi a scaglie, nei suoi riflessi, ti confonde gli occhi che vai stropicciandoti mentre  continui a domandarti se sia stato vero o no, se sia accaduto o no.

Immobili come quando la paura urla da dentro e strappa l’anima: segnali o meno, piano pratico attuale o meno: vorremmo soltanto che fosse ancora, che quell’assurda magia del “fachiro” si ripetesse a ciclo continuo.

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