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E Roma cambiava, velocemente, veloce e macchinosa come i mulinelli che il Tevere gli lasciava vedere da Ponte Milvio. Un movimento oleoso, sommerso, pur senza nascondere nulla: sembrava ci fosse un’anima là sotto, pronta a venir fuori, in subbuglio, intenta a  prepararsi. A tratti cattiva, torva, a tratti purissima e pulita ma laboriosa, ancora intenta.

E lui cambiava con Roma, senza rendersi conto oppure rendendosene, soffrendoci su senza riuscire ad isolare ragioni che gli lasciassero intravedere spiragli di luce chiara al posto di giorni complicati e spigolosi, le regioni delle sue emozioni.

E la sera scendeva lenta, scolata nei suoi colori dalla pioggia improvvisa e fredda che aveva sorpreso tutti là sul piazzale.

E via XX settembre era cambiata col profumo delle zagare sbocciate lungo la via, resistenti a cemento ed asfalto, prepotenti in fiore, fra le auto che sfrecciavano arrabbiate: il bianco dei germogli; erano esplosi, cambiati, col primo sole di quei giorni, caldo da asciugare le sue ossa inzuppate ed instabili dai ricordi, da cementare i colori di un quadro dipinto di fretta, con un paesaggio idealizzato e sperato come non mai.

E lì per terra rimanevano segni e cartacce, risultato dei giorni di manifestazioni per la situazione del governo e della politica, di un paese un po’ sbandato e sempre uguale a se stesso, lungo e diseguale in tutto, pieno di confini, dialetti, piccole storie e grosse disuguaglianze, di tante realtà. Nei giorni prima aveva visto ricoprire le vetrine delle banche o dei negozi delle grosse marche con delle protezioni in legno, a difesa dei vetri oggetto della rabbia dei manifestanti, di una guerriglia urbana di frustrazione verso chi, o verso cosa, questo non sarebbe mai stato chiaro a nessuno.

E non ne sarebbe rimasta traccia, pensava, nei libri di storia, come di altre manifestazioni invece note, come epocali cambi in altre nazioni.

E non riuscì a sentirsi protagonista di nulla ne tanto meno spettatore: si sentiva come se tutto stesse scorrendo indipendentemente da lui come dal resto  da tutti, e come se fosse una colpa, la sua, quella di non riuscire a mescolarsi con il milione di molecole umane in giro lì a Roma: posti, situazioni, persone e storie. Un oggetto estraneo, anche con soddisfazione, così si era sentito.

E la polizia aveva saldato i tombini, per evitare che i manifestanti li potessero lanciare, ed aveva  tolto i secchi dell’immondizia, per la stessa ragione, e tutto questo aveva finito per farlo sentire senza punti di riferimento, seppure fatti di pratici suppellettili: Roma cambiava e lui con lei. Nessuno dei due opponeva resistenza ne se ne stava rendendo conto. Entrambi volevano, anche se Roma subiva mentre lui, di se stesso, ragionava, focalizzava e ne soffriva partendo per una guerra che sapeva già lunga.

E guardava i cartelli dei benzinai, le scritte sui muri, la sua vecchia scuola, la foto di suo padre, la sua scrivania, una vecchia foto di viaggio, lo schermo del pc acceso, la sua testa spenta, la forma delle sue unghie e lo spazio fra ognuna delle sue dita dove avrebbe voluto incastrare una mano che l’avesse soccorso e compreso.

E gli mancava qualcosa anche se tutto era al suo posto, anche se come ogni lunedì la radio gracchiava di improbabili processi calcistici, se le e-mail da leggere sarebbero state tante, se la vita ed il Tevere scorrevano macchinosi come a loro solito.

E decise di sentirsi sbagliato con un altra sigaretta, decise che avrebbe sorriso a chiunque avrebbe incontrato di lì a poco, che dal marciapiede, principio di un viaggio lungo, non avrebbe avuto le vertigini anche avendo paura di cadere.

Massimo

 

 

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