Temporali inconsolabili

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caleidoscopio

E poi prendi l’ultimo metrò, lagnandoti di non essere solo e del rumore delle risate di 4 ragazze feliciNonSoPerché.

L’adduttore del giocatore adduce troppo oppure poco, fatto sta che fa male e…il ghiaccio no, il massaggio no, ATTENTO!

Allora timeOut, timeOut, e t’organizzi in sghimbesci simboli e linee che vanno intrecciandosi rendendo oblunghe, dal dubbio, le facce dei tuoi giocatori. Un pensiero complicato estrinsecato in una sorta i progetto, più un intento và.. Un po come al lavoro : “mi faccia un progetto“, “Si ma…un software che faccia cosa?”, “lei faccia delle ipotesi”.

Ed io disegno, vado avanti, suppongo, immagino e rimango fermo immaginando questo testo senza senso ne filo logico, così tanto da cominciare a chiedermi se senso si possa scrivere ANCHE con la z, senzo, perché no? E’ un’ipotesi del resto.

Una baguette, ma leggera, ed in mezz’ora di tempo, perché poi devo recuperare e correre, verso chi o verso cosa questo no, non l’ho ancora capito. Ho la macchina parcheggiata nonRicordoBeneDove e devo prenderla per correre dove invece ricordo bene , e ricordarlo mi fa sentire stanco come fosse venerdì, ma è martedì, invece, e mi deprimo, mi sento deluso e preoccupato, come nella maggior parte dei rapporti umani.

Ma è colpa mia, almeno così dicono, oppure, peggio ancora, non dicono, mi lasciano solo intendere. Io sorrido e mi maschero da clown, così con un sorriso non dico ne si ne no, tengo botta, tiro avanti borbottando. E mi dicono allora che borbotto, “lo vedi che sei tu?”

E torno alla scrivania, mentre il traffico corre, poi non scorre, si blocca e lo fa sempre sotto la mia finestra dell’ufficio e lo fa, di gusto, mentre gli altri l’avevano aperta dopo che ovviamente avevo chiesto di poterla tenere chiusa. E suonano, si incazzano, urlano, poi tutto si sblocca ed immagino che lo faccia proprio quando vado in bagno oppure se esco di stanza, “tanto a che serve star qui se lui non è lì? “

Avoja , quanno te dice male, te mozzicano pure ‘e pecore (l’apostrofo ci andava?) qual’è oppure qual è. Troncamento oppure elisione? Delusione, è questo che sento.

Allora faccio quadrato, pure se mi sento rotondo, chiudo la finestra, rimango da solo, riordino i fogli sul tavolo e mi rendo conto che sento quel fischio assordante del silenzio, mai provato? Beh, se ti fermi a farci caso, lui aumenta e se ci hai fatto caso, più poi fai finta di niente e più lui fischia. E così ti serve un altro rumore, quel concetto odioso del chiodo schiaccia chiodo che non ho mai digerito.

Ma io insisto, resisto, o almeno questo è quello che pensano di me. Come chi? Quelli che poi mi parlano e che ascolto, gli stessi che si straniscono pure se magari in un attimo gli dici quello che pensi o se provi a raccontargli che ieri sera t’è successo che… Non vi interessa, vero? Proseguo proseguo, per carità, leggete pure.

Correre correre, efficientare, si con la i, pure se con, come senza del resto, sul vocabolario non ci sta. Are , Ere ire, h va a dormire. Ed allora penso al blu oltremare, quel colore dei pastelli che mi ero riproposto, una volta grande, d’andare a capire, indagare, magari viaggiando. Ma poi divento grande e mi incastro con il pervinca, anche se crescerò non sapendo che cazzo sia, se crescerò nascondendo a tutti che poi preferisco il viola.

Adesso ho voglia di una sigaretta, perché d’un sigaro non posso, qui, così come non posso a casa dove  c’è il tempo ma il problema è la puzza, o forse l’odore, anche se poi quello che la sigaretta lascia sul viso, in bocca e sulla camicia continuo a credere che sia peggiore.

E non ho ancora chiamato mia madre, così lo faccio e reggo la conversazione, di fretta, mentre leggo una e-mail interrogandomi sul fastidio che mi arrecano termini tipo “precipuo”, e la povera donna parla, forse capendo che sono distratto, e riempie il telefono di “vabbè” finendo per farmi sentire, stavolta, giustamente, in colpa.
Eh, se potessi almeno dirle quante volte non mi ha chiesto, non mi ha ascoltato, quante volte le avrei detto che…

Ma tanto a chi parlo, a voi che interessa? Comunque, per la cronaca, non le ho detto delle emozioni ne delle soddisfazioni della prima vittoria con la squadra dei ragazzi. Eh, non l’ho detto, ma nemmeno l’ha chiesto !

Vabbè vabbè, è colpa mia, touché, direbbero i francesi, e lo direbbero proprio con quell’accento lì, tipo perché che tanti scrivono come perchè, con la è di è, verbo essere. Se rileggerete la frase lo capirete, ne sono sicuro, vi siete appassionati, me lo sento, oppure lo sogno.

Lo sogno, pure se sogno poco perché dormo poco e se tutti i miei sogni, di notte, sono come quelli qui sopra, spezzettati, a minestrone, a caleidoscopio, a shanghai. E sogno la musica, le donne nude ma poi non ho tempo; il sesso bello, la doccia calda, la strada senza buche, anche se poi mi sveglio per il sussulto della mia testa che vibra non per una buca ma per il russare, oppure per quell’altro ronzio della sveglia del cellulare che vibra e corre lento sul comodino mentre con gli occhi a fessura lo cerco ed ho già smesso di sognare ma non ancora di dormire.

La doccia calda e qualche gomitata chiuso nel box doccia, tanto per farmi sentire sgraziato, troppo grosso, troppo grasso, sbadato, infreddolito. Ma poi arriva lei: la dermatite post doccia, una estrema secchezza del viso, e se questo è l’inizio, il mattino,  tanto valeva rimanere a sognare, pure belle donne e zero tempo per trombarle, alLimiteProprio.

Dice che la dermatite c’è perché uso l’acqua troppo calda, anche se io però sento freddo sotto la doccia. Mi viene in mente la scena iniziale di American Beauty, quella nella quale il protagonista inizia la giornata masturbandosi sotto la doccia, ma io non ho tempo e poi, dovrei asciugare pure QUELLE gocce che sebbene al plurale si scrivano senza la i poi fanno calcare.

Allora rinuncio, per carità!

E corro, poi non trovo posto al parcheggio e non mi ricordo da quanto tempo non faccio la cacca: ancora mezz’ora e sarò in ufficio, lavorando mi riposerò, penso, credo, spero. Ma mi chiedono “le ipotesi” ed io non sogno più, ne ora ne stanotte. Non elimino i sogni brutti, proprio non sogno, non ne vale la pena.

E leggo di omini (eh, va a capire dove va a cadere l’accento) che si rincorrono su un campo rettangolare e poi scrivo di omini (stesso accento) che si rincorrono sul campo rettangolare e passo le serate con la versione umana degli omini dei quali leggo e scrivo spesse volte.

A che ora c’è oggi l’ultimo metrò? “Arrivo coach, arrivo”. “io no, sto male”. “Coach, la coscia…”, “Io non mi ricordo lo schema”.
E così in metro leggo di omini che si rincorrono sul campo per poi arrivare al campo e riepilogare, spiegare per poi tornare indietro riprendendo il metrò, magari l’ultimo della sera, pensando a Truffaut, ma più a L’uomo che amava le donne, così poi penso pure un po’ a Nina Zilli, ma poi non ho tempo…
e così mi metto a letto dopo aver svuotato la borsa che ho trascinando sull’ultimo treno, la stessa borsa che riempirò dopo 5 ore di sonno e nessun sogno, la stessa borsa che trascinerò sul treno, non il primo, non l’ultimo, ma un altro, semplicemente uno come un altro.
Uno che poi mi poterà in ufficio.

“checc’hai?”, mi chiedono, ed io faccio un grosso respiro che non so ancora se servirà per un vaffanculo oppure per spiegare tutto quello che ho dentro. Ma in ogni caso non mi ascoltano, è quella la sensazione che ho, quello che mi dimostrano.

Ed allora sono deluso, come ora, come all’inizio, così alla fine del pezzo.
Si, dite pure che il pezzo senso non ha: io invece, con una pessima rima, la chiamo realtà.

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