Ritratti
Set 01
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Lungo la strada abbiamo parlato con una piccola famiglia tamil che vive coltivando e vendendo anacardi.
Piccole capanne di foglie di cocco a bordo strada, facce asciutte, nere e serie.
Facce sovraesposte nella fretta di uno scatto rubato fra imbarazzo ed indecisione, sentimenti che mi accomunano agli improvvisati, serissimi ed impettiti modelli.
Sono sicuro che pochi hanno mai visto la pianta ed i frutti degli anacardi. Un grosso frutto da cui penzola, come fosse una coda posticcia, l’anacardo. Per quanto riguarda noi occidentali gli anacardi potrebbero crescere benissimo nelle ciotole da aperitivo ma in realtà nascondono ben altre procedure e storie.
Gli anacardi vengono raccolti, più che altro in marzo, e vengono poi tostati usando, qui, una pentola di rame scaldata su un fuoco di carbone triturato. Siamo fuori stagione e non ho potuto fotografare il frutto ma è impressionante come una pianta ne produca pochi rispetto alla grandezza del frutto principale: ecco la ragione del costo elevato.
Le figlie del proprietario ci hanno chiesto delle penne e rovistando nello zaino ho trovato una penna che ero sicuro di aver preso in albergo, in Thailandia, anni fa e che tenevo di scorta lì nella tasca delle buste della lavanderia, dei fiammiferi e della torcia elettrica. Niente soldi, una penna.
Nella foto un po’ mossa che ho scattato poco dopo ho ritratto un imbarazzo fortissimo che non mi fa guardare la foto senza sentirmi a disagio. È come se lei si fosse piegata, non volendo, allo scatto. Il padre l’ha spinta a mettersi in posa come per ingraziarsi un ricco esigente che dopo poco avrebbe speso alla loro bancarella.
Così la mia foto male scattata ha ora uno scarso valore come immagine ma è come se avesse una densità maggiore; non ne vado fiero ne riesco a spiegarmi perché ma ho in testa chiarissima quella voce bassa che mi chiede una penna, il padre che mi offre anacardi in assaggio e che la rimprovera per aver chiesto qualcosa senza aver prima pensato a vendere.
Mi chiedo stupidamente cosa quella penna scriverà, dove e quanto, mi chiedo se alla fine della giornata sarà rimirata nella luce fioca della lampada ad olio di quella assurda capanna di fango e foglie.
Vorrei leggere i metri di inchiostro che quella penna, spero, stenderà, anche se su stentatissimi fogli: una curiosità a metà fra speranza e pena.
Abbiamo deciso di andare fuori programma e così siamo nel sud Tamil Nadu, in villaggi senza elettricità, semi disabitati, popolati solo da agricoltori e famiglie che con telai ultracentenari tessono sari ed altre vesti .
Le case scalcinate ed i vicoli vuoti, le mucche all’ombra degli immensi alberi di tamarindo, i templi in posti che la nostra guida non contiene perché troppo piccoli e senza servizi per turisti.
L’aerea di Chettinadu è poco popolata e non tutti parlano inglese. Sotto un cielo piuttosto chiuso da nuvoloni alti e grigi abbiamo visitato decine di templi indù capendo via via di più delle leggende, delle parentele fra gli dei, degli animali loro veicoli.
Qui le persone sono sorridenti e così semplici da sterminare qualsiasi tipo di ragionamento rispetto ad organizzazione ed ordinarietà, qualsiasi quotidianità che possa appartenerci.
Il sud è ospitale e calmo, accoglie e spiega, nei templi come nei piccoli villaggi dove spesso ci fermiamo per qualche foto che ci chiedono di fare.
La loro assurda soddisfazione nel vedersi ritratti, quelle pose irrigidite, simili a quelle degli indiani nelle foto storiche dei trattati di indipendenza dal colonialismo inglese, riescono a stupirci ogni giorno.
Abbiamo preso parte a diversi riti indù, trascinati con grazia dal Bramino di turno, e ci siamo fermati davanti a statue ora di pietra, ora di bronzo che ritraggono Shiva nelle sue varie forme di distruttore o dispensatore: ora danza uccidendo demoni, ora insegna la vita semplice facendo da mendicante, ora placa Kali, personificazione violenta della sua Parvati, moglie bellissima ma dalla doppia natura: ora dolce, ora primordiale, tribale, violenta.
I giorni sono simili fra loro eppure tutti diversi. I frettolosi ritratti hanno storie che non conosceremo mai e che continuano a smuore la fantasia ed in qualche incredibile modo una sorta di felicità per una riscoperta , una forza che oltrepassa le difficoltà che ci impressionano senza essere nostre.
Un lento e lunghissimo treno taglia in due la notte fuori dall’hotel e sbuffa come fosse a vapore, come viaggiasse in un’ epoca passata: le ultime foto del giorno sono con un gruppo di persone che abitano poco più giù.
Uno di loro è malformato ed ha gambe piccolissime. Vive sfruttando una bicicletta che aziona pedalando con le mani: ingegnosa ed interamente artigianale, creata con materiali di altri veicoli abbandonati.
Ho promesso loro che gli manderò le foto scattate ed ho già preso accordi con il manager dell’hotel (meraviglioso e storico) dove oggi dormiremo.
Credo che quel treno fosse il più lungo mai visto, che avesse un vagone per ognuna delle facce che ho incontrato, per ognuno dei ritratti che ho mancato, uno per ognuna delle persone che qui al sud, nonostante tutto, ridono forte.
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