Partire, tornare
Ago 10
Racconti conrad, cuore di tenebra, loretta, massimo soldini No Comments
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La folata improvvisa gli disegnò un brivido veloce sulla pelle. Un fulmine di freddo che riuscì ad immaginare scolpirsi sulla sua gamba, risalendola.
La mano sul viso madido significò una nuova pagina, uno scostare i pensieri precedenti e cominciarne dei nuovi: provò a sognare ancora insistendo su stupidi ghirigori a metà fra ricordi e le briciole del sogno precedente.
La mano non spazzò l’odore denso di fumo del quale la barba era insaporita da anni e con gli occhi chiusi rimescolò le idee sperando di rimandare il risveglio. Gli alberi chiusi come
un tetto, là fuori, nascosti nel buio, parevano ancora resistere alla pioggia che già s’annusava. Forse adesso aveva chiaro il concetto di vegetazione del quale Conrad aveva scritto in Cuore di Tenebra e ne riusciva a sentire come un pauroso rispetto.
In equilibrio precario fra andare e restare , senza nessuna nuova tappa già definita e con la macchina fotografica satura di colori, persone ed oggetti usurati si spostò nel bagno dove malamente inquadrato dallo specchio si radeva deciso scolpendo il viso sudato ed ammorbidito dal caldo soffocante.
Sotto la luce giallastra e liquida del lampadario dondolante per il vento ripensò alla piccola Giulia ed a tutte le lettere che aveva pensato, camminando, e che non le aveva più scritto convinto l’avrebbe annoiata. Sentì dentro la devastante sensazione di non averle trasferito ne tanto meno insegnato niente e si rassegnò a darsi ancora un pessimo voto.
Ebbe chiarissime quelle labbra così perfette da infastidire: Loretta.
Le vide lì davanti così perfette da sembrare disegnate e le ricordò serrate, ma naturalmente, soffici e profumate. Quell’aria così profumata e respirata fine, come non fosse mai stata consumata ma arricchita, come se i suoi polmoni potessero carburare l’aria e rimetterla in circo migliorata, come potesse fungere da benzina per tirare avanti e far girare quel motore che sentiva nello stomaco quando mangiando le sedeva davanti e non riusciva a trovare il filo d’un discorso che gli sembrasse naturale.
Quelle lebbra scolpirono nuvole pesanti che sembrarono di piombo, quando gli disse che sarebbe andata via, quando lui avrebbe voluto il bottone stop, un nuovo ciak per girare ancora la scena, chiederle di far finta che non sarebbe stato così, come per soddisfare un pubblico, lui stesso, che da fuori guardava la scena.
Una scena che nessuno ripeté ne rigirò. Una scena reale e perfetta nella sua disarmante semplicità, così come quelle labbra, chiuse alla perfezione una sull’altra: un’immagine perfetta, un’altra foto che non seppe scattare per mancata prontezza, un’altra definizione che non seppe trovare.
Partire è un po morire.
Per lui lo fu del tutto. Il piccolo aereo è svenuto lì fra qualche desolata palma che da accesso al mare, dove la foresta infame, fitta, bastarda e primordiale lascia respirare chi arriva dall’entroterra della penisola.
Sono andato a prenderlo ed ho sorriso.
Aveva il grosso zaino, organizzato e strapieno, fra le gambe: seduto nel suo sedile aveva un’aria un pop scema e presuntuosa, rilassata, come avesse realizzato qualcosa. Forse non ha avuto il tempo di capire, pensare, ma la scena sembrava una pausa, una foto di un momento.
L’aereo piccolo ed inconsapevole forse è planato e poi atterrato di sasso.
È così che ho immaginato l’ultima sua notte.
Ho visto qualcuna delle sue foto, cercato di ricostruire un filo logico fra le pagine inumidite del piccolo blocco che aveva nella tasca dei pantaloni.
Pensieri strappati, piccole battute, orari di treni e bus citazioni di non so chi.
Così, sono stato costretto ad uscire e prendere un aereo.
Figlio di puttana, in un modo o nell’altro mi ha convinto.
Al suo viaggio manca un senso.
“più che a partire prova a tornare, perché il ritorno da senso al viaggio” aveva detto citando qualcuno che non ricordo.
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