Kind of blue

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Piove,
nel buio, per scelta, della mia casa ho trovato il coraggio di alzarmi , almeno oggi, e di farlo davvero.
Ho trascinato i passi per via dei piedi infreddoliti dal pavimento: tutti già lavorano e la via s’è svuotata; finalmente ho deciso di rifilarmi la barba.
L’ho deciso mentre nel silenzio della via spiccava la pioggia che batteva sulle ringhiere là sotto.

Qualche giorno fa ho ascoltato una grandissima verità in una intervista ad Antonio Rezza: più il corpo se ne va, più si dorme meglio.

E’ vero, è una grande verità, ma vale solo per la stanchezza, per quel rifiato di muscoli ed ossa della sera quando, stendendosi, pare che il corpo nel letto possa trovare una nuova forma, quando sembra che le ossa si muovano quel poco che serve a rimetterle a posto, in quell’esatta posizione in cui i muscoli non sono tirati e rimangono burrosi, pronti ad un uso da rimandare.

Io invece non trovo il sonno; leggo cose che anni fa non avrei mai letto, mi interesso a cose che ho creduto noiose “da giovane”.
Non ho mai un vero sonno ma sogno, parecchio.
Microscopici periodi di sonno, intervallati da lucidissime veglie in cui la realtà del sogno di poco prima mi avvelena o mi emoziona, a seconda del caso, della scena vissuta.
Non apro nemmeno gli occhi, lascio tutto com’è per ritrovare subito il filo: sogno spezzando le scene con piccole veglie, come se stessi montando un film perfetto.
Piccole vegli durante le quali sto male per quel che è finito nel sogno oppure per quello che nel sogno ho vissuto: così sto male, che il sogno fosse bello oppure brutto.

Confondo spesso sogno e realtà convincendomi poi che ho sognato perché prima ho vissuto. E’ vero, un paio di dubbi li ho ancora e credo di non riuscire più a sanarli.

Ho sbagliato qualche riga, col rasoio, fra il vapore dell’acqua calda ed il massaggio del pennello: suona Kind of Blue di là nella stanza. Che disco… lo immagino girare stortignaccolo sul piatto del giradischi; suona così bene da lasciarmi credere di poterne respirare le singole note.
Fuori dalla finestra s’accumula un misto fra neve e grandine così la pioggia, forse rispettosa del disco, non fa nemmeno più rumore.

“Ciao amore”
E la vedo leggere seduta composta.
La guardo sorpreso e riesco come a vedermi “da fuori”, focalizzando l’espressione che cambia il viso. Mi guarda spalancando gli occhi verdi, sottolineati da un sorriso.

Così mi sorprende ancora, Loretta, lasciandomi distendere i nervi ancora tesi per via del sogno di poco fa in cui era lì in casa dei miei. Adesso quel sogno è chiaro, ora riavvolgo quel nastro: continuavo a cambiarmi senza trovare nulla di giusto da mettermi. Avrei voluto indossare qualcosa di migliore: le prime uscite, presentarla a mia madre: e invece niente, correre, fare tardi, i vestiti sbagliati i colori sbagliati. Ricominciare da capo con l’ansia dei suoi discorsi al piano di sotto, con mia madre; ricominciare a vestirmi con la paura che intanto lei potesse andarsene già stufa d’aspettarmi, con la paura che dall’inizio non avremmo avuto invece futuro. E invece era lì che leggeva, aspettandomi.
Scendere per chiedere scusa del ritardo e vederla sorridere nel viso tondo circondato dai capelli: rassicurante e serena, come una droga.

Avevo mescolato frammenti di veglia e di vita vissuta, alla miscela dei mie déjà-vu: ingredienti a cui ho aggiunto lei, lì seduta.

Quando la sveglia ha suonato ero già sveglio, stavolta ad occhi aperti.
In silenzio, mentre fuori pioveva forte, ho messo su quel cd: kind of blue, Miles Davis.
Poi ho preso coraggio, nel buio del mattino di casa, e sono andato in bagno a radermi.
Ho guardato fuori dal bagno un paio di volte ma senza trovarla seduta a leggere.

Massimo

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